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RACCONTO DI ANTONIO GAETA

Aaaaaaaaaaa avevo voglia di urlare tutta la mia gioia. L’adrenalina scaricata da quel bacio aveva generato un’energia che facevo fatica a contenere dentro quel goffo corpo che era rimasto lì fermo mentre il resto del mondo correva veloce ed inesorabile. Avrei voluto esplodere, avrei voluto correre veloce su una ducati da corsa, avrei voluto spiccare un salto altissimo.
Rimasi fermo sul ciglio dei binari, in un prato di cicche, cartacce stropicciate, pezzi di biglietti vidimati e cycles spiaccicati, mentre il treno che l’aveva inghiottita si allontanava da me.

Improvvisamente tutto cominciò a rallentare. Il tempo frenò la sua corsa, come se il fantomatico dj, che fino ad allora ne aveva dettato e scandito il ritmo a 180 bpm e più, preso da una ispirazione istantanea, avesse deciso, senza alcun preavviso e senza nessuna ragione apparente, di modificare la scaletta in esecuzione. Così all’istante aveva mosso le sue leve, provocando un rallentamento del disco house sul piatto. Ne stava gradualmente abbassando i giri al minuto per mixarlo con uno strano pezzo trip-hop, quasi dub, infinitamente più lento, mille volte più cupo, diversi ordini di grandezza più pesante di tutto ciò che si era ballato fino a quel momento.

Ebbi l’impressione che tutto cominciasse a girare.

I treni che circolano presentano sulle fiancate incomprensibili graffiti hip-hop. Vicino a me sento delle voci di signore anziane che discutono di come cucinare il baccalà, qual è la tecnica migliore per farlo ‘sponsare’, qual è la salumeria dove è possibile trovare il migliore. Non in quella là perché c’è una commessa veramente scostumata e senza rispetto, non quell’altra, dove costa 50 centesimi in meno ma è proprio una stoppa.

Aaaaaaaaaaa hai due scudi da spingere? – mi riporta alla realtà un tossico che lì è di casa ed ogni volta si inventa una scusa diversa, ed ogni volta sempre più impossibile, per racimolare una cosa di soldi. All’improvviso si volta, posa in terra la sua busta di plastica, scende sui binari e comincia a spingere il treno appena fermatosi sui binari. Le signore anziane lo guardano senza stupirsi poi tanto, ma sorridendo a quest’altra sua trovata stramba. Si avvicina il capostazione. Il tossico ne avverte la presenza, resta forse intimorito dalla prepotenza di quel cappello rosso con il frontone nero, smette di spingere, prende la sua borsa di plastica, sorride al suo pubblico e se ne va. L’uomo dal berretto rosso fischia e anche il treno se ne va, ma nella direzione opposta.

Io guardo l’orologio sul muro, chiudo il mio quaderno arancio, lo infilo in una grossa borsa con un cartellino ‘Europa y Africa’, la sollevo e me vado. Esco dalla stazione, mi allontano dai treni e dai loro graffiti. Salgo su un autobus rosso con una striscia nera, vado al secondo piano, mi siedo sul primo sedile, ho difficoltà ad allungare le gambe ma attraverso il vetro innanzi a me posso godere di una bella vista. Il viaggio è ancora lungo, cala il buio, in cielo c’è luna piena. Chi l’avrebbe mai detto!

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