Shark Emcee from Made in Sann-yo!

OSCHI LOSCHI

riceviamo e pubblichiamo:


Quattordici particelle schizzate fuori dalle fumanti penne di altrettanti autori che hanno deciso di mettersi in gioco dando alle stampe storie che hanno vissuto, sentito o inventato.
Tutti Oschi (in qualche modo legati al territorio confinato nell’antico Sannio storico), tutti beffardi nel provocare il comune senso morale con i fatti che raccontano: anziani molto speciali, signorotti d’altri tempi, suore inquietanti, rapinatori imbranati, gnomi burloni, clandestini senza destini, amori perduti e amori ingannati, libri divorati e divoranti, guide turistiche caserecce, attualità assassina, questioni di vita e di morte, corredati da una colonna sonora consigliata durante la lettura, ed arricchiti ciascuno da una copertina d’autore.

Fresco di stampa presso “The Boopen Editore” (sul cui sito è anche possibile acquistare il libro), “Oschi loschi” sarà presentato il 28 Dicembre 2010 alle ore 19.00, presso la libreria Luidig (Palazzo Collenea – Corso Garibaldi, 95 - Benevento).



INCONTRI E ALTRI PICCOLI DISASTRI

RACCONTO DI ELISA MINI'

-          Ciao scusa il ritardo sono viva per miracolo.
-          Perché? che ti è successo?
-          Mah, un idiota col Cayenne stava per venirmi addosso, quella mezza sega non solo non mi ha dato la precedenza ma mi ha dato anche della puttana dal finestrino.
-          E tu?
-          Sono scesa dallo scooter mi sono tolta il casco, gli ho sorriso come una puttana e gli ho detto: non sono una puttana stronzo di un playboy col cazzo mignonne, una puttana non ti farebbe mai questo.
-          Questo cosa?
-          Ho sbattuto il casco sul cofano e sono scappata.
-          E se ti ritrova? se ha preso la targa? se ci sono stati testimoni? se ti fa causa?
-          Sei dalla mia parte o che? se mi fa causa mi difende tuo fratello no?
-          Certo ma stavolta Cate ti presenterà la parcella, non fosse altro per il rompimento di scatole.
-          Si dice rompimento di coglioni Cri, scendi tra noi umili e sboccati mortali.
-          Cosa vi porto belle dame?
-          Il tuo nome?
-          Guglielmo.
-          Guglielmo caro, potresti lasciare per un attimo le calde atmosfere del ‘700 e tornare al presente?
-          Certo, che volete?
-          Per lei una camomilla, doppia.
-          Ora mi calmo, è che quello stronzo mi ha destabilizzato la pace interiore. Prendo una cioccolata calda.
-          Per me un bombardino.
-          Allora una cioccolata e un bombardino.
-          Ho cambiato idea prendo una camomilla. Si può correggere con un po’ di Rum?
-          Si possono correggere tante cose ma la camomilla...
-          Tu correggi, mica te la devi bere.
-          Un tantino polemico ma mica me lo devo sposare, che ne pensi?
-          Penso che non gli piacciano le donne.
-          Cazzo...che spreco. Ma sei sicura?
-          No. Lo sai che non li so distinguere i vari generi.
-          A proposito, com’è andata ieri sera Cri? Non avevi un appuntamento al buio?
-          Non me lo ricordare, ho passato una serata da incubo con un tipo che per tutto il tempo non ha detto una parola fino a che ha cominciato a infilare una serie di assurdità su una palestra piena di uccelli.
-          Che tipo di uccelli?
-          Volatili Cate, sai quelli con le piume e le ali.
-          Ah, e dov’è questa palestra?
-          In centro. Ma fammi finire. Poi mi ha detto che è un cacciatore e dopo un minuto si è rimangiato tutto, non era più un cacciatore. Ho pensato: questo pur di portarmi a letto è capace di rinnegare anche sua madre. Bastava vedere come mi guardava il culo, sembrava che non ne avesse mai visto uno in vita sua.
-          Hai detto culo. Ma ci sei stata, a letto con lui?
-          Stai scherzando? con un cacciatore mai, è una questione di principio. Poveri uccelli, in quella palestra, abbandonati a una manica di invasati che giocano al tiro al bersaglio con le pistole.
-          Semmai con dei fucili Cri, non s’è mai vista una caccia agli uccelli con le pistole, mica siamo nel Far West.
-          Oh...è vero non ci pensavo.
-          Ma non ti è passato per la testa il pensiero che ti stava prendendo in giro?
-          Hai detto ‘in giro’. No, parlava sul serio, ti assicuro. Comunque ho finito con gli appuntamenti al buio.
-          Chi tu? ma non dire stronzate. Non smetterai mai con gli appuntamenti al buio per il semplice motivo che sei una troia travestita da romantica. Guglielmo, se la camomilla corretta è buona, si insomma, se funziona, hai perso se fa schifo hai vinto.
-          E se vinco cosa vinco?
-          Certo che ne sai di parole del vocabolario eh? Scusa, non volevo essere antipatica, si, insomma non sono così come mi vedi.
-          Un po’ strega di Biancaneve? Scusa non volevo offenderti. Devo andare all’altro tavolo.
-          Wow, hai sentito? quant’è stronzo. Lo voglio.
-          Ma che dici Cate, io desidero solo incontrare un uomo normale, fare una vita normale, avere obiettivi normali.
-          Certo Cenerentola, ma la mamma te l’ ha detto che gli uomini che vanno agli appuntamenti al buio, specie quelli trovati su internet hanno le palle girate al contrario?
-          In che senso?
-          Svegliati Cri, è ora che guardi in faccia la realtà, quelli vogliono solo portarti a letto una volta, forse due per rimpinguare il curriculum.
-          Mi stai dicendo che si vogliono solo divertire senza desiderare un seguito?
-          Oggesù! E io che ho detto? Guglielmo! la camomilla corretta è più disgustosa di una birra calda ma l’ ho bevuta tutta. Hai vinto.
-          Potresti per cortesia non urlare nel mio locale?
-          E’ tuo?
-          Si cioè no, ci lavoro quindi è anche un po’ mio.
-          Mi sa che è un po’ comunista questo Guglielmo ma mica me lo devo sposare no?
-          Cate, non mi sembra che straveda per te.
-          Dammi tempo, vedrai che lo ripiego come una camicia.
-          Se ti riesce mi iscrivo al tuo corso.
-          Quale corso?
-          Come conquistare con successo un uomo a cui non piacciono le donne. Comunque non sono d’accordo con quello che dici, secondo me lì da qualche parte esiste un uomo fatto per me.
-          Certo che esiste un pazzo senza autostima che ti vuole tesoro mio ma non lo trovi in rete, devi cercare altrove.
-          Per esempio nei bar?
-          Certo, ci vuoi provare tu con Guglielmo? Guglielmo!
-          Si?
-          La mia amica vorrebbe invitarti a un appuntamento al buio.
-          Ma Cate, ormai non è più al buio, ci conosciamo! E poi perché non ti fai un bel tegame di fatti tuoi?
-          Scusate se mi intrometto e mi scuso anche per l’eccessiva sincerità ma...perché sei così acida tu?
-          E’ una lunga storia. Se hai tempo te la racconto tutta, siediti con noi.
-          Io sono qui per lavorare, mi pagano per servire ai tavoli non per sedermi a fare il simpatico con i clienti tanto meno per fissare appuntamenti al buio.
-          Ma non è un appuntamento al buio ottuso di un Guglielmo. Scusa, non volevo dire ottuso.
-          Ma ormai l’hai detto.
-          Mi vuoi sfidare a duello qui fuori?
-          No ma potreste accomodarvi subito qui fuori.
-          Hai ragione Cri, non gli piacciono le donne. Ma posso passarci sopra, mica me lo devo sposare. E poi è così...provocatorio e provocante...Guglielmo caro, sei cangiante tra il rosso e il viola, sei sicuro di star bene? Potrebbe essere un principio di infarto.
-          Come ti chiami?
-          Deborah con l’acca.
-          Senti Deborah con l’acca, e anche tu, statemi a sentire bene. Io qui ci devo lavorare, non posso mettermi a discutere con i clienti né litigare con i clienti né mettere le mani sul viso ai clienti perciò se avete un briciolo di rispetto per me e per il mio lavoro pagate il conto, andate a pettinare le vostre bambole e amici come prima.
-          Ok  ce ne andiamo, ma lasciami dire che non hai proprio il senso dell’umorismo.
-          Bene non ho il senso dell’umorismo, ciao.
-          Perché gli hai detto che ti chiami Deborahconlacca?
-          Oggesù, non ce la faccio a spiegarti tutto Cri, arrivaci un po’ da sola. Fai un po’ di strada per conto tuo e poi ci ritroviamo al capolinea della reciproca comprensione.
-          Oddio Cate, oggi sei proprio un mistero per me.
-          Tutta colpa di quel nano col Cayenne. Da domani non dirò più parolacce, le dirò solo quando serve, alla bisogna. Nano di merda...





Non c’è cuore che resista

(Racconto di Andrea Zurlo)
         Quel giorno d’estate, quando lo zio Tolomeo se ne andò, il volto di mia zia Clotilde, sua moglie e sorella di mia madre, diventò pallido e lei quasi smise di respirare. Meno male che la zia Cloti si riprese subito e reagì con un prorompente “¡Sei finalmente morto vecchio disgraziato!”, lasciando là il medico con la mano tesa, pronto a fare le condoglianze.
“E’ sicuro, dottore? Guardi che io non voglio entrare in quella stanza e trovarlo seduto sul letto, felice e arzillo, grazie ai miracoli della scienza; quel vecchio aveva le Duracell!”, insisteva la zia parlando come una mitragliatrice, carica di una felicità contagiosa, mentre stringeva la mano al medico.
“Più morto di così, impossibile, signora”, rispose il medico storcendo la bocca in un mezzo sorriso.
Mai prima di quella volta avevo visto la zia Cloti così euforica. Era ringiovanita tutto ad un tratto, un sorriso brillante le accendeva lo sguardo e le guance, distese per effetto di un’inattesa giovinezza , un lifting di nuova vita.
Zia Cloti era stata allieva dello zio Tolomeo, che aveva quasi una trentina d’anni più di lei. Lui era un uomo d’intelligenza e cultura meravigliose, accompagnate da un carattere naturalmente ombroso/melanconico? e depresso e con una faccia da bulldog in canile/gabbia?, che non riusciva mai a superare i suoi attacchi di panico, le nevrosi e ipocondrie varie.
Ora, finalmente libera, zia Cloti rivelava il suo volto di bella quarantenne, con voglia di divertirsi e godersi quel che le rimaneva della vita attiva. Un paio di settimane dopo aver sepolto zio Tolomeo, in fretta e furia, la zia ci portò a casa il suo nuovo fidanzato. “Però!, niente male”, sussurrò mia madre con la bocca mezza aperta davanti al bel fusto palestrato, quindici anni più giovane della zia e che trasudava testosterone da ogni poro. A quel tempo avevo solo quattordici anni e il nuovo zio, simpatico e divertente, era proprio il massimo per un’adolescente, soprattutto per il modo in cui la zia e lui mi viziavano. A quel tempo il mio attaccamento verso di loro era notevole. Passavo con loro quasi ogni fine settimana, perché ogni volta facevamo qualcosa di piacevole e ci stavo meglio che con le mie amiche. Lo zio era pure un genio della matematica e mi spiegava con pazienza quello che non avrei mai capito, anzi la mia famiglia era felice e molto sorpresa dei miei voti a scuola e dei benefici della compagnia dello zio sul mio comportamento irreprensibile.
La vita continuò serena, almeno fino a quando ebbi all’incirca sedici anni e, si sa, a quell’ età gli ormoni si scatenano, o almeno quello è sempre  stato uno dei miei alibi preferiti.

 Lo zio poi non erano soltanto un bell’ esemplare di palestrato, ma possedeva anche un acuto senso dell’umorismo e una fine intelligenza, per niente intorpidita dall’eccesso di muscoli. Non so come sia successo, oppure non lo voglio ricordare, ma durante una delle sue lezioni private ci siamo ritrovati avviluppati tra le lenzuola della mia camera a casa di zia Cloti. Mi bastò quella prima volta per lasciar perdere le uscite con quelle oche delle mie amiche e i loro romanzi infantili. Una prima volta onestamente indimenticabile.

Prima di iniziare l’università, a diciotto anni, traslocai definitivamente a casa di zia Cloti, perché mi era più comodo frequentare le lezioni partendo da casa sua. La vita mi sorrideva. Con lo zio facevo una coppia affiatata inoltre, in compagnia dell’allegra e inconsapevole presenza di zia Cloti, i nostri incontri clandestini e furtivi erano anche più eccitanti.

         Il tempo passa rapido, segnando il suo passo indelebile in modo equo. Zia Cloti iniziò a perdere lo smalto e a prendere chili, lo aveva inciso sui geni: il sedere monumentale della nonna si riproduceva sul suo senza nessuna pietà. Non c’erano dubbi su chi era la preferita dello zio, lui sosteneva che la mia pelle da ventenne gli era terapeutica e lo metteva al riparo dai malumori di Cloti che in quel momento scoprì pure la menopausa.
L’anno della mia laurea, lo zio mi fece una proposta indecente e quasi irresistibile: fuggire insieme. Dopo un’analisi attenta e distaccata della situazione, mi accorsi che avrei dovuto affrontare un mucchio di problemi e responsabilità che non ero pronta ad assumermi. Ben sapevo che mio padre mi avrebbe tagliato i ponti, nuocendo gravemente alle mie possibilità di carriera e, ancora peggio, costringendomi a lavorare! Lo zio era consapevole che la mia famiglia non avrebbe mai accettato la nostra storia, soprattutto con zia Cloti di mezzo, che avrebbe gettato fango su di noi con la sua lingua biforcuta.
Pochi giorni più tardi lo zio portò a casa una fiala miracolosa, dicendo che era una pozione, un incantesimo per il disinnamoramento che una fattucchiera gli aveva venduto assicurandogli che “Nessuno rimane più lo stesso dopo averla assaggiata, i legami si rompono per sempre”. Sul fatto che “nessuno rimane più lo stesso” aveva proprio ragione. Secondo lui la zia l’avrebbe ripudiato, cacciandolo via e così sarebbe stato libero; in quel modo noi avremmo potuto vivere la nostra vita senza problemi, alla luce del sole, senza metterci la mia famiglia contro.
Durante il funerale della cara zia Cloti, lui interpretò benissimo il ruolo del marito triste e abbattuto, sorpreso dalla morte improvvisa della sua adorata Cloti che era pura salute. Il caso fu chiuso come un semplice infarto prodotto da eccesso di ginnastica, tranquillanti, dimagranti, trattamenti di bellezza, integratori, botulino e acidi vari e sedute con applicazione di sanguisughe per ossigenare il sangue, vale a dire tutto quanto Cloti inghiottiva e prendeva in quantità industriale in modo da non sembrare la madre di suo marito che era appena approdato ai quaranta.
Benché lui l’avesse giurato sulla croce e sulla tomba di Cloti, io non ero convinta che quella pozione fosse soltanto per il disinnamoramento.
Malgrado tutto, ero piuttosto giù in quel periodo, la zia Cloti era stata la mia zia preferita da piccola e questo non si dimentica mai, anzi, fu lei a regalarmi la mia prima Barbie, quella che ancora sta sul mio comodino, e mi aveva anche insegnato ad andare in bici e a farmi le unghie. Dimenticare certe cose sarebbe stato come tradire la sua memoria. Grazie ad una delle mie vecchie e sciocche amiche, che era preoccupata dalla mia depressione, conobbi un ragazzo della mia età con cui iniziai a frequentare la discoteca e a godermi tutto quello che mi ero persa durante la mia adolescenza a causa di quell’innamoramento ostinato per lo zio.
         Sono rari gli uomini che superano i quaranta anni degnamente. Anche con palestra e dieta, lo zio stava mettendo su pancia, perdeva i cappelli, sempre più bianchi, per non parlare delle sue prestazioni sessuali calanti e di quell’angoscia da quarantenne che aveva finito per mandargli il morale sotto le scarpe, a causa del cambio di decade.
         Quella notte eravamo in macchina di ritorno dal ristorante. “Ora ti farò una camomilla bella forte”, dissi io, “così ti riposi, sei troppo teso, amore”. Lui accettò con un bel sorriso ed io afferrai con forza la fiala che conteneva quello che avanzava della pozione per il disinnamoramento che lui aveva dato a zia Cloti e che io avevo conservato in caso di necessità, per gli stessi nobili fini.
Povero zio! Aveva il cuore a pezzi.

IL PUPAZZO VERDE

RACCONTO DI ELISA MINI'


Quando entrò in casa e vide il pupazzo verde, capì che era troppo tardi. ‘Come’, pensò, ‘due serate di fila?’ Erano d’accordo di usarlo al massimo due volte a settimana ma due sere di seguito era un vero cataclisma. Sarebbe dovuta andare a dormire da sua sorella, di nuovo, e Dio sa quanto fosse scomodo e pieno di peli il suo divano. I gatti e il barboncino avrebbero dormito per cinque minuti sul tappeto, poi l’avrebbero usata come cuscino. Due notti insonni no, non le avrebbe sopportate. Ma ormai l’ingranaggio si era messo in moto, il pupazzo era lì, con gli occhi di Jack Nicholson in Shining e non si poteva tornare indietro, i patti andavano rispettati. Carolina tirò il filo che usciva dalle viscere del pupazzo e una voce all’elio esplose in una risata satanica.
‘Stasera dormo da te. Baci’ fu il messaggio che inviò di controvoglia a sua sorella senza accorgersi di averlo spedito a Matteo Z.
Il telefono la colse impreparata.
-          Marta!
-          Sei a casa?
-          Ho visto il pupazzo.
-          Mi dispiace Carolina, è solo per questa volta, mi hanno spostato il turno e...
Carolina non la stava più ascoltando, Marta sapeva dilungarsi come un molesto suonatore di fisarmonica in un ristorante partenopeo e qualsiasi scusa profumava di ipocrisia fino all’ultima nota.
-          Fa’ che non si ripeta più. Non è bello dormire con un gatto conficcato sotto l’ascella, uno appiccicato al collo e un barboncino che russa come una segheria.
-          Te lo prometto. A buon rendere eh?
-          Come no? Nel 2020. La signora del piano di sotto si è lamentata delle voci da film porno.
-          Ha detto così?
-          Si, ha detto proprio così, magari stasera fatelo in piedi, per esempio. E fallo stare zitto.
-          Ah si...
-          Ciao.
-          Ciao...
‘Roba da non credere’, pensò, ‘divido la stanza con una demente da due anni ma quando non se la filava nessuno si dormiva, ora che ha trovato il suo dispensatore di piacere rumoroso come una scrofa, dormire è diventato un lusso’.
Il cellulare trillò di nuovo. Un messaggio di Matteo. ‘Topolino ti aspetto alle cinque da me. Mi manchi. Baciotti’. ‘Non bastava il pupazzo verde’, pensò Carolina che già si vedeva sul divano sepolta dai gatti con una gerla di corna conficcate in testa. Non era lei il topolino con cui Matteo K., il suo ragazzo, aveva fissato alle cinque. E poi ‘baciotti’ non prometteva nulla di buono. Sentì risuonare nella testa un Mozart un po’ incarognito: ‘Mi tradì quell’alma ingrata, quell’alma ingrata, infelice o Dio mi fa, infelice o Dio mi fa. M’ha tradita e abbandonata, provo ancor per lui pietà’. Non aveva il diritto di trattarla così Mozart, lei gli aveva sempre portato rispetto, lo aveva sempre suonato con passione e deferenza. Lui un genio. Lei un mollusco pieno di corna.
Pochi furono i pensieri a frullare nella mente di Carolina. Per l’esattezza due. Quell’incubo del divano di sua sorella e le corna che avrebbe messo a Matteo il giorno dopo. Un terzo pensiero affiorò, collegato ai primi due. Avrebbe potuto mettere subito le corna a Matteo così non avrebbe dormito sul divano di sua sorella. Certo, era tutto chiaro, il cerchio si chiudeva alla perfezione. Come diceva quel tizio? ‘Non essere rigore fino a che arbitro non fischia’. ‘Matteo’, pensò, ‘ti regalerò un bel mazzo di corna’.
Tutto chiaro. Fin qui. Ma dove trovare il chiodo che scaccia la trave? O era un quadro? La soluzione arrivò dopo qualche minuto. Prese il cellulare e iniziò a scorrere la rubrica. Paolino S. no, lui non era quello giusto, troppo insicuro. Lorenzo M. no, puzzava di pesce. Enzo F. detto Basta che Respiri? ‘E’ lui’, pensò, sarebbe stata sua quella notte, aveva in mente un piano ben preciso. Compose il numero.
-          Ciao Enzo, sono Carolina, quella che lavora in palestra.
-          Ah, ciao, mi è scaduta la tessera?
-          No, non credo, ti va di bere una cosa con me stasera?
-          Perché no, non ho niente di meglio da fare e non ci sono partite in tv.
-          Perfetto, allora ci troviamo al Wunder Bar alle otto per l’aperitivo?
-          Ok. Ehm...come ti riconosco?
-          Sono Carolina, della palestra...
-          Ah certo...io indosserò una giacca verde e blu. E tu?
-          Non ho ancora deciso, a dopo.
-          Si...a dopo. A che ora?
-          Alle otto.
-          Ah, è vero. A dopo.
Le cose non andarono proprio come Carolina aveva immaginato. Andarono come Marta aveva immaginato ma quella è un’altra storia. Mise davvero le corna a Matteo K., ma volle andare oltre, e questo provocò un terremoto senza eguali. Andarono a letto insieme, come lei aveva progettato e, come in tutte le storie in apparenza semplici e lineari, poteva finire lì. Ma fu il quarto pensiero che si insinuò nella sua mente a dare il via a una catena di sciagure. Lei volle fotografarsi insieme a lui, nudi. E volle anche spedire la foto a Matteo K.. Ma nella fretta, quella che ti anima quando vuoi prenderti una rivincita storica, premette il tasto ‘invia a tutti’ e quella foto la vide anche il suo professore di statistica oltre che sua madre, suo padre, le zie, la nonna, sua sorella, i gatti, il barboncino, tutti i suoi amici, la parrucchiera, il calzolaio, la squadra di pallavolo. Girò anche su facebook. Ma questo fu il minore dei mali. Enzo F. aveva una ragazza che forse non sapeva di avere più corna di un cesto di lumache, e ci rimase molto male quando per vie misteriose e trasversali vide la foto. E affrontò Carolina nei pressi della palestra col tatto e col vocabolario di un camionista, con tutto il rispetto per i camionisti, la quale si lasciò offendere e disse:
-          Dovevo farlo per la mia dignità, che me frega della tua?
La ragazza di Enzo F. arrivò alle mani ma fu trattenuta da alcuni giocatori quattordicenni di una squadra di calcetto che, per caso, passavano di lì, e la faccia di Carolina fu salva. Ma non finì così.
Sua madre, travolta dall’entusiasmo, pensò di fare una cosa trasgressiva inviando a suo marito una foto di lei col suo amante, nudi. Ma il marito non la prese bene. Per dispetto fece a pezzetti tutto il di lei guardaroba, anche il cappottino del cane.
Matteo K. l’aveva lasciata non per il tradimento con Enzo F. considerandolo un tentativo di ripicca basato sull’errore di fatto, ma perché convinto che Carolina avesse una tresca con Matteo Z.
Le ultime notizie di Carolina, giunte da amici di amici di Marta, furono quelle del suo fidanzamento clandestino con uno dei ragazzi della squadra di calcetto nel frattempo divenuto quindicenne e di una denuncia per abuso di minori poi ritirata grazie al padre di Carolina, che aveva scucito una montagna di soldi alla famiglia di lui e di un incendio nel suo appartamento causato, pare, da un pupazzo verde finito per caso nel forno a 240 gradi. Una fine davvero triste per un pupazzo che fino all’ultimo aveva riso come uno stronzo.



 

L’ultima puntata di Dr House

RACCONTO DI NICOLA ZANGHI

L’ultima puntata di Dr House è in streaming nel mio pc.
Bamby legge una stupida rivista per donne dall’altra parte del letto. Arriva un sms sul mio cellulare.
“Chi è?” dice Bamby.
Senza scompormi, senza muovere nemmeno un sopracciglio, rispondo banalmente “non ne ho idea, lo leggerò solo quando House sarà finito. Non infastidirmi”.
Non si da per vinta. Con la sua vocina stridula, accompagnata con dei fastidiosissimi calci sotto le coperte, torna a dire “Potrebbe essere Elena che ci chiede qualcosa per la cena di stasera, guarda cosa ti ha scritto”.
Non do importanza alla sua voce. Resto totalmente indifferente alla richiesta e continuo a seguire la macchina per la risonanza su una paziente che di professione fa la scrittrice, e che si trova in ospedale per delle forti attitudini suicide.
Ad un tratto vedo il braccio della mia fastidiosa compagna che si sposta in direzione del cellulare. Se c’è una cosa che non tollero proprio è l’invasione della privacy. Allungo il braccio ed afferro il cellulare con l’altra mano. Ha vinto. Capisco immediatamente che dedicare 15 o 20 secondi ad un messaggio mi toglierà di torno Bamby per i prossimi decisivi 20 minuti.
Il mio volto cambia espressione per accentuare lo sforzo e sottolineare il disprezzo con il quale vado a leggere l’sms. Il numero non è in rubrica, e quasi certo del fatto che sia Elena ad averlo inviato, inizio a leggerlo ad alta voce. “E’ tanto che voglio parlarti, mi sei mancato…Finalmente mi sono decisa. Quando possiamo vederci?”
Un brivido mi percorre la schiena, inizio a sudare freddo, penso quasi istantaneamente che le prossime 2 ore saranno davvero lunghe. Nella immediata frazione di secondo successiva porto alla mente ogni tipo di parola che possa aiutarmi a uscire pulito da questa situazione, scruto tutte le varie possibili versioni che giustifichino quel messaggio, e cerco di capire a quale donna o episodio Bamby creda faccia riferimento il testo. Sono spacciato.
Mi giro verso di lei lasciando sul mio volto un’aria volutamente perplessa e quasi scocciata per quanto accaduto. Senza nemmeno proferire una sillaba, a polmoni appena carichi, vedo la sua mano che schiocca uno schiaffo sapor d’astio sulla mia guancia sinistra. Il movimento della mano è accompagnato dalle parole “Cosa cazzo fai? Chi cazzo è questa troia? Possibile che in tutto questo tempo tu non sia cambiato per niente? Ed io come una stupida qui ad assecondarti, per questo non volevi rispondere!” Le frasi, che viste dal punto di vista dell’odio hanno un loro filo logico, dal punto di vista concettuale sono del tutto errate. E’ evidente dal testo che non sono io a far qualcosa, ma in chi l’ha inviato, qualcosa che va aldilà delle mie azioni, ha generato un improvviso cambiamento. E’ dunque inutile provare ad evincere da questo messaggio se io sia cambiato o meno. Questo pensiero, accompagnato al dolore al volto, fa nascere dentro di me un sentimento di rabbia inarrestabile. Non rispondo nulla, ed inizio a guardarmi intorno cercando un qualsiasi oggetto pesante e duro per fracassare la sua minuscola testa. Il mio sguardo somiglia a quello di un Pitone di Seba che è pronto a mordere la preda. Mi lascio comunque calmare da quella che è la mia parte peggiore, il buonsenso, e mi rivolgo a Bamby dicendole “Guardami.” Pausa, “Non ci sarà una prossima volta.” Pausa. “Nessuno nella mia vita mi ha mai messo una mano sul volto, e ti assicuro che nessuno lo farà mai.” Pausa. “Non ci sarà una prossima volta”.
Le mie mani sembravano pronte a scattare, ma sarà stato il tono della voce, o appunto il perdono, Bamby si impaurisce, e si pente della sua azione, resta in silenzio, abbassa lo sguardo e intima una carezza, che io non respingo.
Lo schiaffo, per quanto odioso sia stato, mi ha portato in una condizione favorevole, ma ancora non del tutto risolta. Inizio ad immaginare quale delle mie ex possa aver scritto questa frase, ma confuso sul numero e sul movente, decido che è meglio provare a rispondere al messaggio, in modo tale da sembrare realmente ignaro a quanto successo. La fase laconica “chi sei?” soddisfa momentaneamente Bamby. In attesa della risposta, il mio letto sembra essere diventato quello di un fachiro, sento un pungere di chiodi lungo i fianchi, il calore nella stanza potrebbe essere alimentato dai carboni ardenti sui quali dovrò salire non appena arriverà la risposta.
“Non sei Luca?”
Torno a respirare, sono salvo. Guardo in viso la mia dubbiosa compagna e blatero un “La tua mancanza di fiducia stava per far si che mi perdessi per una simile minchiata. Questa tua stupidità può costarti cara.” Lei si volta verso la parete per distogliere i suoi occhi tristi ai miei e dice “non potevo saperlo, come posso fidarmi dopo tutto ciò che so di te, che ti ho visto fare? E’ una tortura.”
Ho ristabilito la pace, adesso si tratta di concludere con i soliti discorsi inutili su me, lei, il passato ed il futuro. La perdita di tempo conseguente è enorme ed io ho altre cose più importanti da fare: Dr House.
Mi avvicino al suo collo, poggio le mie labbra, salgo pian piano su fino a dietro l’orecchio e le sussurro “Basta fidarsi.” La frase detta con del sorriso aggiunto nella voce, ha qualcosa di epocale e sublime. Lei si volta, mi bacia e sorride. Ho vinto.
Ristabiliamo i nostri posti a letto, metto in play la puntata, lascio trascorrere 7 secondi, rimetto in pausa, afferro il cellulare che avevo ormai dimenticato e rispondo a mia volta alla povera mal capitata. Immagino la sfortuna della ragazza, che finalmente decisa a contattare quello che probabilmente sarebbe stato il suo futuro amore, si trova invece con un numero errato tra le mani. Per non farla più navigare nel dubbio, e permetterle di continuare la vita senza false speranze, con il mio solito tatto rispondo “no” ed invio. Ho già perso altri 15 secondi di Telefilm, inaccettabile.


Bamby Ballerina

RACCONTO DI NICOLA ZANGHI

Bamby guida l’auto proprio di fronte a me. Con quel suo piede un  po’ pesante, e un’andatura disconnessa da far incazzare un eremita. Ed io dietro sulla moto, provo odio per la sua guida, la sua sbadataggine ed il suo riuscire a perdersi anche con il navigatore. Bamby ha delle cosce alle quali si perdonano perfino deviazioni di chilometri. Mi domando se riusciremo mai a trovar la meta, o se dovrò accontentarmi di mascherare la rabbia di fronte a quel suo faccino da bambina, e di non gridarle in viso che non guiderà mai più.
La sala da ballo finalmente è davanti ai miei occhi. Senza aspettare che posteggi mi accosto, fermo la moto, mi libero di casco e guanti e mi dirigo verso di lei con aria minacciosa. Lei mi guarda, con quegli occhietti da cerbiatta, con il sorriso smorzato, e la sua mano sempre li a coprirlo. Che altro nome potevo darle se non Bamby? Posso non perdonarla? Si scusa, e mi accarezza i fianchi. La guardo uscire dall’auto, vedo prima i tacchi, poi le calze finemente ricamate a fiori. Impazzisco per le calze, e lei lo sa. Emetto un suono come se volessi spogliarla, lei intuisce e sorride, mi dice “smettila tentatore”. Lei, la provocatrice sottile, che passa le giornate a lasciare che io la guardi, sculettando di fronte alla mia scrivania, come se io fossi fatto di marmo e non carne e sangue rovente. Bamby, che mi invita ad un corso di ballo, come niente fosse, senza domandarmi “vuoi?” ma semplicemente “sei il mio ballerino, ti ho iscritto al corso di tango!” E finalmente qui, in questo squallido bar di paese, in una saletta che useranno per fare il liscio la domenica, io e lei a toccarci, a lasciar andare i nostri corpi. La lezione inizia, uno, due, tre e quattro, con un tempo sempre costante, il maschio guida, la donna segue. I corpi non si devono allontanare, sempre paralleli. Guarda le mie spalle Bamby, non i miei piedi, non ti calpesto. Sai ballare meglio di me, ma la postura da Salsa non ti aiuterà qui adesso. Apri quelle cosce, ancora, tirale indietro, come fai a letto. Chi mai potrebbe pensare quanto tu sia fragile, con quel fare da ballerina, e quel cuore da bambina.



COSI’ E’ SE VI PARE GIALLO

RACCONTO DI ELISA MINI'



-          Credevo che avessi preso un giallo caldo.
-          Perché? Cosa ha che non va questo giallo?
-          Non è quello che volevo e poi questo colore fosforescente non è adatto al salotto.
-          C’erano centomila gradazioni di giallo, ho preso quella che mi sembrava più calda.
-          Stai confondendo il caldo con il catarifrangente.
-          Beh, la prossima volta ci vai tu a scegliere la vernice!
-          D’accordo la prossima volta ci vado io non dubitare, ma mi spieghi perché hai già dipinto le pareti? Non potevi aspettare me?
-          Ma se mi hai messo fretta, mi hai perseguitato per giorni perché volevi la tua vernice e ora che ce l’ hai non ti va bene cazzo!
-          Volevo che la stanza fosse finita prima dell’arrivo dei miei, che c’è di male? Come potevo immaginare che avresti comprato una roba così...abbagliante, se fisso un punto qualsiasi mi viene il mal di testa!
-          Fai una bella cosa, vai tu a scegliere la vernice, gialla e calda quanto vuoi e poi ridipingerò le pareti. Che vuoi che sia, su per giù venti ore di lavoro.
-          Questo perché sei lento come...
-          Come cosa? Dipingitela tu la stanza signora so far tutto meglio io!
-          Certo, domani vado a cambiare i barattoli ancora sigillati.
-          Ma si vai a cambiarli, vedrai che lo faranno di certo, dopotutto è solo una vernice personalizzata, non ti diranno di no.
-          Appunto. Potresti scendere da quella scala?
-          Ma dove vivi?
-          A te piace questo color angoscia? Sii sincero, ti piace davvero?
-          No, lo sai che mi piace solo il viola.
-          E allora perché?
-          Perché cosa?
-          Come mai ho la sensazione che mi stai prendendo per il culo?
-          Forse perché hai la coda di paglia.
-          L’hai fatto apposta!
-          Di cosa stai parlando?
-          Si, l’ hai fatto apposta. Hai comprato una vernice orrenda perché sapevi che non mi sarebbe piaciuta.
-          Ehi, ti ricordi? Io sono quello con un neurone solo, l’hai detto tu, ho una mente semplice e monografica, non potrei mai partorire un ragionamento così contorto.
-          Quindi non l’hai fatto apposta.
-          No.
-          Allora non hai il minimo gusto. Per te un colore vale l’altro.
-          Esatto, a me piace solo il viola, tutti gli altri colori non hanno senso, per quante gradazioni e sfumature si possano fare.
-          Non si è mai sentita una cosa del genere.
-          Lo dici tu, c’è tanta gente che vive bene con le pareti di casa bianche, non ha bisogno di avere altri colori intorno a se, perché il bianco dà loro tutte le soddisfazioni di cui hanno bisogno.
-          E’ una velata polemica camuffata da metafora della vita?
-          Sarebbe? Sai il mio neurone...
-          L’hai appena detto, c’è gente che vive tutta la vita con il bianco senza desiderare qualcosa di diverso, vive una vita piatta e incolore fino alla fine dei propri giorni senza chiedersi come sarebbe cambiare colore alle pareti, senza porsi troppe domande. Colazione, pranzo, cena, nanna, buongiorno e buonasera. Fine dei giochi.
-          Non volevo fare nessuna metafora, il mio neurone da solo non è così bravo, mentre tu te ne stai lì a scrivere un trattato di filosofia, a pontificare, come se volessi insegnarmi come si fa a vivere. Sai una cosa? Si vive bene anche con le pareti color merda, basta farci l’abitudine, basta non pensare che un giallo caldo sarebbe meglio.
-          Bene, mi sembra che non abbiamo più niente da dirci.
-          Sul giallo no di certo. E quando arriverebbero i tuoi?
-          Te l’ho già detto, arrivano venerdì. Dì al tuo neurone di prendersi una segretaria.
-          E tu dì ai tuoi neuroni spocchiosi che sono lì, nella stanza dei bottoni, a fare le convention sul nulla, che forse sono tanti e l’unione fa la forza ma tutta quell’acidità li porterà all’odio, si scanneranno, si massacreranno fino a che non ne rimarrà soltanto uno...
-          Highlander!
-          Proprio lui.
-          Così il mio neurone e il tuo potranno uscire a bersi una cosa.
-          Esattamente.
-          Venerdì arrivano i miei. Puoi fare in modo che questa stanza non sembri dipinta con uno Stabilo Boss?
-          Non so se potrò, venerdì è dopodomani e in fondo non me ne importa un accidenti della stanza, dei tuoi e di te con i tuoi neuroni isterici. Visto che la casa è di tutti e due, la dividerò in due parti. La tua avrà le pareti calde e i contenuti freddi, la mia sarà fosforescente, pazienza, ma il mio neurone ci starà benissimo.
-          Sei il solito esagerato.
-          Domani per andare in camera da letto dovrai passare dal bagno tesoro. E i tuoi dovranno dormire nel ripostiglio.
-          E’ tutto?
-          No. Il mio neurone mi suggerisce frasi indicibili ma ho deciso di tacere. Adesso lasciaci soli, ci serve assoluto riposo, domani sarà una lunga e rumorosa giornata. Non guardarmi così. Non toccare la scala!
-          Domani non sarà una giornata rumorosa ma solo lunga. Tutti penseranno ad un incidente. Oh, poverino, si è rotto il collo dipingendo una parete gialla abbacinante come un flash. I miei saluti al tuo neurone!

LA NAZIONE. 2 NOVEMBRE 2010.
Coppia fiorentina muore per un inspiegabile incidente domestico. Marco G., mentre dipingeva una parete del salotto ha perso l’equilibrio sulla scala ed è precipitato addosso alla moglie, Anna S.. In base alle ricostruzioni della Polizia, i due sono morti sul colpo, battendo la testa l’uno contro l’altra. Sono stati ritrovati ricoperti di vernice gialla fosforescente. L’ispettore a capo delle indagini ha commentato così l’incidente: ‘Si è trattato di una clamorosa fatalità, la più singolare della mia carriera. Si esclude ogni movente omicida’.




SENZA RETE

RACCONTO DI MARCO



Quando entrò e vide il pupazzo verde capì che era troppo tardi. Quell’insulso oggetto con gli occhi a mandorla era sempre lì, appoggiato sulla mensolina fra i profumi e le creme. Avrebbe potuto afferrarlo e farlo a pezzi, oppure farlo volare fuori dalla finestra, ma qualcosa, una sorta di imperativo categorico interno, la spingeva a non fare niente di tutto ciò. Per un attimo pensò di tornarsene a letto per riprovare ad addormentarsi. Inutile: ormai quella situazione si era ripetuta troppe volte durante la notte e sapeva che non sarebbe più potuta tornare indietro: c’era nuovamente dentro fino al collo.
Tutta colpa di quel bastardo di Iacopo, era lui la causa di tutto ciò.
Uscì dal bagno e si fermò per un istante ad osservarsi nello specchio ovale del corridoio. I segni della serata prima le si erano stampati tutti sul volto e poi avvertiva un malessere fastidioso proprio all’altezza dell’utero: non era un dolore irresistibile, ma continuo, come se la punta di un lungo ago le si fosse piantata dentro, dalla fica fino agli organi interni.
Il bastardo l’aveva abbandonata, il professorucolo depresso del cazzo si era permesso di fotterle un anno di vita. Provò a dirigersi verso la stanza da letto, ma era come se una forza invisibile glielo impedisse e la spingesse verso il salotto. Non voleva tornarci in quella maledetta stanza, le faceva schifo solo l’idea. Si sentiva i capelli sporchi, stopposi e ora le sembrava che un liquido freddo e viscoso le stesse colando lungo le cosce. Doveva essere l’utero o le ovaie che le stavano marcendo. Si affacciò appena in salotto e con grande delusione constatò che la pozza di sangue era sempre lì, stagnante, forse ancora non del tutto secca. Più in là doveva esserci ancora il cadavere di quel deficiente con il quale, probabilmente, lei doveva aver avuto la malaugurata idea di passare la notte: il taglio, se ricordava bene, era situato proprio in prossimità del cuore, nella parte sinistra del petto. Si sentiva a pezzi, distrutta da quella notte eterna, trascorsa davanti a quell’assurdo ammasso di carne steso per terra nel sangue.
Che cosa era successo? Lo aveva ammazzato lui, per vendetta, per gelosia? Un fiume di lacrime calde le inondò il volto. “Cosa hai fatto Iacopo? Cosa hai fatto stupido bastardo idiota? Come faremo ora? Ti metteranno in galera per tutta la vita. Ti terranno lì dentro rinchiuso. Lontano da me. Ti faranno del male. Ogni giorno ti faranno del male”. Recuperò lucidità: lo stronzo non meritava certo la sua compassione. Che crepasse anche lui, che sprofondasse all’inferno la sua casa di merda, che bruciassero i suoi fottuti compiti da correggere e che morissero tutti i suoi amici del cazzo.
Chissà dove era finito quel gattino grigio che aveva ronfato tutta la notte sul divano di fronte a lei? Quante ore era rimasta accoccolata in quell’angolo della stanza ad osservare il morto? Ogni tanto il micio schiudeva gli occhi per controllare la situazione, un po’ infastidito dai suoi pianti, ai quali d’altronde sembrava aver velocemente fatto l’abitudine. Le pareva di ricordare che a un certo punto si fosse alzato stirandosi su tutte e quattro le zampe e fosse sceso con un balzo elegante dal divano, atterrando proprio sulla pozza di sangue. Aveva appena assaggiato il liquido e poi si era allontanato con un certo atteggiamento sdegnoso, imbrattando il pavimento di piccole impronte rosse. Ma era un ricordo lontano, come di un fatto avvenuto tanti anni prima.
Nonostante la disgustasse l’idea di dover rivedere quel fottutissimo pupazzo verde, era riuscita a trascinarsi nel bagno e mentre pisciava e continuava a pensare al gattino, sentì un colpo, un tonfo sordo provenire da una delle stanze adiacenti. Si alzò dal cesso, ma sentiva le gambe pesanti come statue di marmo. Uscì a fatica dal bagno che ora le sembrava immenso e si ritrovò nella luce giallognola di una cucina. La stanza erano invasa da un forte odore di cibo, di fritto e si ricordò che Iacopo odiava entrare nei locali in cui c’era puzzo di fritto: era capace di rovinare la serata a chiunque pur di non farlo. Le pareti della stanza erano quasi tutte scrostate  e appiccicate ad esse, sotto l’intonaco, si intravedevano colonie di vermi rossicci che si aggrovigliavano fra di sé. Il cadavere del deficiente era compostamente seduto a tavola, con i gomiti appoggiati su una tovaglia ricamata, il tovagliolo al collo e le posate in mano, di fronte a un grande vassoio contenente della carne arrostita.
Non aveva poi una così brutta cera, soltanto quella ferita sul petto, che ora si era allargata a dismisura, trasmetteva una qualche trasandatezza, un certo senso di sporco. Sonia immaginò che a questo punto dovesse anche emanare un cattivo odore.
Udì un grido lacerante uscirle dallo stomaco, quando, avvicinatasi di più alla tavola, vide che nel vassoio era stato servito, con intorno un corredo di patate arrostite, il gattino che aveva passato la notte con lei.
“Brutto figlio di puttana - cercava di urlare senza riuscirci e sentiva che le parole rimbombavano nella cavità vuota del suo utero - Bastardissimo figlio di puttana. Come ti sei permesso? Come hai potuto fare una cosa del genere?”
Come un insetto impazzito cominciò a volteggiare intorno alla stanza in cerca di un qualcosa che nemmeno lei sapeva. Gliela avrebbe fatta pagare a quel maledetto idiota. Eccome se gliela avrebbe fatta pagare. Non appena vide la fila di coltelli lucenti ordinatamente infilati in un grosso ceppo, ritrovò la calma. Scelse con cura la lama più affilata, si voltò lentamente verso quello stupido corpo senza vita e con un colpo fermo e deciso gli staccò di netto la testa dal collo. Questa rotolò per qualche metro in direzione della finestra per poi fermarsi con la parte destra del volto appoggiata sul pavimento.
Nemmeno una goccia di sangue. Doveva averlo perso completamente tutto il figlio di puttana.
Sonia si avvicinò alla testa abbandonata sul pavimento e la colpì con un violento calcione, mandandola a spiaccicarsi contro il vetro della finestra che andò in frantumi nel più totale silenzio.
Il dolore all’utero si era fatto ora più violento e quel sogno la stava proprio stremando. Era tutta la notte, da quando aveva ingoiato quella manciata di tranquillanti, che non riusciva ad uscirne.




La riscossa degli alter ego


(Racconto di Andrea Zurlo)

  Quando entrò in bagno e vide il pupazzo verde capì che era troppo tardi. Immaginò che fosse un avvertimento. Avvicinandosi, osservò che un pò del ripieno del pupazzo fatto di microsfere di polistirolo era disperso al piede del lavandino. Alcune delle palline bianche si erano appiccicate sull’asciugamano rosso. Soltanto loro avrebbero potuto portarlo lì dal suo nascondiglio in fondo all’armadio. Quegli omini erano capaci d’ogni atrocità, n’era convinto, perfino di torturare il pupazzo verde nonostante fosse innocente, che colpa n’aveva lui? Prese in mano il suo vecchio pupazzo e sentì il suo corpo afflosciarsi fra le dita ed osservò il suo viso contrarsi in un gesto sofferente, le guance e le orecchie da ranocchio spaziale persero importanza e fu, ancora una volta, soltanto un pezzo di tessuto verde forato. Le palline del ripieno del pupazzo si sparsero veloci sul pavimento, era caduto pure il pulsantino per farlo parlare e dire “Ciao amico” con quella sua vocina. Risultava ovvio che gli omini non erano più esseri inermi, ma, a chi poteva chiedere aiuto? Chi avrebbe mai creduto a questa storia folle? Lui era un uomo serio e rispettabile, come poteva andare in giro a dire che degli omini avevano massacrato quel vecchio pupazzo? Era pura pazzia, nessuno l’avrebbe mai creduto.
  Neppure Lei, caro lettore. Posso vedere il suo sorriso sornione mentre pensa “a me non inganni con i tuoi sotterfugi da scribacchino. Niente da fare”. Tuttavia, si guardi attorno, certamente loro sono arrivati anche da lei. Non pensi alle tarme quando troverà un buco sul suo cappotto nero e non creda che quei rumori nella soffitta sono causati dai topi. Niente affatto. In sostanza loro sono noi, tanto crudeli quanto noi, sebbene piccoli, anzi minuscoli. Leggono dentro le nostre anime, e quello non è una gran bella cosa, si cibano di noi. Bisogna avere paura, non crede? Ma è meglio raccontare la storia dall’inizio, così Lei avrà i mezzi per giudicare.

  Il giorno nove novembre il professore Simino Gregorius decise che alle sei precise sarebbe andato a passeggiare, ma prima ancora sarebbe salito alla mansarda a mettere fine a quell’impossibile confusione che l’arrivo del suo unico figlio dall’estero aveva provocato. Non era semplice per il professore Gregorius accettare un altro spazzolino da denti nella sua casa. Da decenni lui era la sua unica, gradita, compagnia, a parte Ghedino, il suo fidato collaboratore, e la sola idea di condividere l’aria della sua casa con un’altra persona, se pur sangue del suo sangue, non destava in lui nessun entusiasmo. Inoltre il giovane non portava neppure il suo cognome; l’appartenenza alla stirpe dei Gregorius era qualcosa di serio, bisognava meritarla.

QUANDO ORMAI E’ TROPPO TARDI


RACCONTO DI PATRIZIA BRUNO

Quando entrò e vide il pupazzo verde capì che ormai era troppo tardi. Era successo davvero. Lo vide lì sul parquet, disteso sul guscio, le zampe in aria. Era Guizzo, il pupazzo che aveva regalato a Davide per il suo primo natale. Una piccola tartaruga con il guscio maculato di sfumature verde oliva, il muso e il corpo di un verde brillante e due occhi neri vispi. Raggiunse il pupazzo e si chinò a raccoglierlo. Camminò a passi lenti, con titubanza verso la camera di Davide. Si affacciò e restò sulla porta: i cassetti erano aperti, le ante dell’armadio spalancate, la cesta dei giochi rovesciata. Non riusciva a muoversi. Sapeva che sarebbe successo quel pomeriggio. Ma era riuscito a non pensarci.
Il cliente cinese, il contratto da un milione di euro, le clausole da definire nei minimi dettagli. Un obiettivo da raggiungere.
Davanti ai suoi occhi il letto di Davide a forma di maggiolino. La sua mente vide lui e Davide accoccolati. Davide con la sua voce acuta insiste “Dai papà, ancora, ancora, leggi leggi, finchè Marlin non trova Nemo”.
Dario si affrettò in cucina, prese una birra dal frigo. Era troppo tardi. La voce nella sua mente continuava a ripetergli che era troppo tardi. Una dopo l’altra ricordò, all’improvviso, come se fossero nella sua memoria, ma non le avesse vissute, le volte che Sara aveva provato a parlare con lui. Ma benedetta donna, non coglieva mai il momento giusto. Dario accese una sigaretta e andò a sedersi sul divano, in salotto. Gli tornò alla mente l’ultima sera, qualche giorno prima, in cui era tornato in piena notte e Sara l’aveva aspettato sveglia. “Io me ne vado”. Non aveva dato peso alle sue parole. Aveva lasciato cadere Guizzo sul parquet e la tartaruga lo guardava. Dario pensò “non so in quale letto sta dormendo mio figlio”.

Questione di busti

Questione di busti


Cara mia, il tuo culo è di mio gusto
Quasi più del tuo bel busto
Se col cazzo te lo frusto
Tu ben sai che son nel giusto!
Anonimo Fiorentino