IL SEQUESTRO


Racconto di Michela Fabbrini



Successe in estate. Ricordo che faceva molto caldo a New York. Mia moglie e io avevamo appena litigato. Rachel aveva già caricato le bambine sulla giardinetta. Mi avvicinai al finestrino della macchina. Aveva il volto disteso e rilassato ma le mani poggiate sul volante tradivano un leggero tremore. Io la guardai: -Sapevi che ero un sbirro quando mi hai sposato, lo ero già. E sapevi come sarebbe stata la nostra vita – le dissi. – E’ vero Steve lo so, me lo dici sempre ma, le cose cambiano e le nostre bambine stanno crescendo senza di te. Da quando ti hanno promosso Detective della Omicidi non hai più un attimo di tempo per la tua famiglia – si fermò un istante – non hai più tempo per me.

- Papà perché alla mamma scendono le lacrime?- squittì Susan la più piccola delle due, aveva quattro anni e un grosso ciuccio in mano, mi fissava con la  testolina reclinata di là dal vetro. La più grande, Carol, le rispose – Stai zitta, papà e mamma stanno discutendo.- Aveva un’aria molto seria. Susan si sganciò dal seggiolino e scavalcò Rachel tentando di uscire dal finestrino e arrampicarsi sulle mie braccia. Scese dall’auto anche Carol. – Ascolta tesoro facciamo così – le dissi aprendo lo sportello per abbracciarla – tu e le bambine andate dai nonni, lasciami concludere questa maledetta indagine, appena avrò arrestato quel bastardo stupratore di Drake che sta terrorizzando la città da mesi, ti prometto che risolveremo tutto come abbiamo sempre fatto. Ricordati che noi due ci amiamo davvero, non dimenticarlo mai-.
Lei mi sorrise appena – Ho paura per te – mi disse – speriamo che quest’incubo finisca presto. Poi ci abbracciammo stretti e mormorò – ti amo anch’io maledetto sbirro-.
Le bambine nel frattempo stavano saltellando sul selciato, le mie due bambole d’oro. Sentivo già la loro mancanza, sapevo che sarebbe stata dura per noi: in nove anni di matrimonio non ci eravamo mai allontanati l’uno dall’altra per più di una notte o due.
Rachel sembrava più calma adesso, fece risalire le nostre piccole pesti sulla giardinetta, mi sfiorò le labbra con un bacio e se ne andò prima di scoppiare di nuovo a piangere.
Le guardai andar via salutandole con la mano finché non imboccarono la strada per l’aeroporto, poi rientrai in casa.
Sentivo alla bocca dello stomaco una specie di crampo, un’inquietante sensazione di pericolo, lì al momento la scambiai per rabbia: mi sentivo impotente e furioso, una brutta combinazione, e mi sentivo solo.
Presi una birra ghiacciata, il caldo torrido di quell’estate newyorkese sembrava premere sulle finestre dei palazzi: lottando contro le migliaia di condizionatori che appestavano la città permettendo agli abitanti di sopravvivere.
Accesi lo stereo e mi sedetti sul divano, le prime note di “Last train home” riempirono la stanza: Pat Metheny ha sempre avuto su di me un effetto calmante, la sua musica mi placa e mi aiuta a pensare.

Ero immerso nell’ascolto quando il telefono squillò: - Pronto capo sono Ben, sono in ufficio – La voce del mio vice era molto tesa. Ben Stone è un ragazzo biondo e alto, con un faccione da angelo e un fisico da lottatore di wrestling. E’ l’uomo più cortese e mansueto che abbia mai conosciuto, ma in quel momento era molto agitato.
- Ciao Ben, dimmi ci sono novità? – chiesi. “Sì, novità molto importanti, ricordi la ragazza aggredita da Drake che è riuscita a salvarsi? Jennifer Gray, la nostra unica testimone, ecco lei è qui nel tuo ufficio. Non voleva assolutamente parlare con noi perché era troppo spaventata ma adesso ha cambiato idea. –
Saltai su dal divano e risposi: - Ok Ben ascoltami bene, io arrivo subito, tu nel frattempo lasciala tranquilla, portale un caffè e aspettami. – Mi infilai un paio di jeans e salii in macchina, l’abitacolo era un forno e il volante mi bruciava le mani ma correvo veloce verso Brooklyn.
Mentre guidavo cercai di immaginare questa povera ragazza che aveva subito violenza dal quel maniaco figlio di puttana e ne era uscita viva, probabilmente suo malgrado. Pensai a Rachel, ai suoi occhi spaventati e sperai che stavolta fosse quella buona, volevo arrestare il bastardo e vederlo marcire in galera.

Arrivai davanti agli uffici del Dipartimento e salii due rampe di scale. Fuori l’asfalto si scioglieva, dentro l’aria condizionata mi fece rabbrividire. La nostra sede di Brooklyn è un grattacielo di vetro e acciaio dove gli ambienti non hanno pareti, solo tante scrivanie e facce diverse separate appunto da vetro e acciaio. Fortunatamente i detective hanno uffici chiusi e separati e dentro il mio, Ben mi stava aspettando gettando occhiate preoccupate verso il vetro che separa la mia stanza da quella degli interrogatori. Dall’altra parte c’era una ragazza seduta, una giovane dallo sguardo perso nel vuoto e un caffè tra le mani. 
- E’ lei? – Chiesi?
- Si capo – rispose Ben, sua madre l’ha convinta a parlare con noi. E’ stata aggredita mentre tornava a casa, lavorava in un bar. Sempre lo stesso metodo: uno straccio imbevuto di etere sulla bocca in un luogo poco illuminato non lontano da dove vive.
- Sicuramente l’aveva spiata per giorni, conosceva i suoi orari e i suoi spostamenti. Avrà studiato l’assalto. Come le altre vittime, Drake l’aveva caricata sul suo furgone e probabilmente voleva violentarla, per fortuna il bastardo era stato messo in allarme da qualcosa o qualcuno ed era fuggito di corsa, gettando Jennifer Gray in mezzo alla strada, per questo non l’ha uccisa.  Questo lo so già Ben, è nel rapporto –
Mi rispose mentre cercava di togliere un granello di povere invisibile dalla cravatta:
- Ha detto di aver cercato di sollevarsi e che poi qualcuno, forse uscito da una casa lì di fronte, l’aveva soccorsa-.
Com’era sensibile Ben lo si capiva dalla sofferenza con cui mi faceva quel resoconto. Comunque proseguì cercando di tenere a freno l’ansia. - Per giorni era rimasta sotto shock, ricoverata in ospedale. Quando l’hanno dimessa è tornata a casa ma era troppo spaventata per parlare con la polizia. Sono trascorsi alcuni giorni poi stamani la madre della ragazza ha chiamato il nostro ufficio. Così sono andato a prenderla-.

Attesi un momento che Ben riprendesse fiato, non avrei potuto fare a meno di lui, anche se rimaneva in silenzio ad assistere: a dispetto della sua immensa timidezza il mio vice aveva una faccia così rassicurante e due occhioni blu intensi che gli consentivano di trasmettere fiducia fin dal primo istante.
Entrammo e mi sedetti di fronte a lei, Ben invece le si mise accanto. Sembravano David e Golia: lui enorme lei piccola e minuta, entrambi biondissimi. 
- Ciao Jennifer sono il detective Steven Tomson, apprezzo molto la tua decisione, non deve essere facile per te affrontare tutto questo. – La ragazza mi guardava in silenzio aspettando che proseguissi. Era molto pallida, aveva un bel viso incorniciato da lunghi capelli biondi. – Inizia a raccontarmi che cosa è successo quella sera, abbiamo bisogno del tuo aiuto per riuscire a fermare quel pazzo-.
Mi disse come Drake l’aveva sorpresa e narcotizzata poi aveva ripreso i sensi all’interno del furgone, era molto buio, dentro c’era lo stesso odore delle autofficine. Lui le stava addosso e le tappava la bocca, aveva udito delle voci venire da fuori. Drake si era fermato, si era sollevato e le aveva messo le mani sulla gola, voleva ucciderla ma aveva una gran fretta di andarsene quindi l’aveva spinta fuori da furgone e se n’era scappato.

Decidemmo di fare una pausa e Ben si alzò per pendere altro caffè. Il telefono della mia scrivania squillò, alzando la cornetta provai un brivido lungo la schiena e fui certo che qualcosa non andava.
Detective Tomson – dissi. – Steve sono Rachel aiutami, Devil Drake ha rapito me e le bambine, c’era un uomo in panne, mi sono fermata per soccorrerlo e … - Pronto, Rachel! Pronto!-
Ben, appena realizzato cosa era successo, si era messo in azione: stava chiamando il capitano del nostro dipartimento e cominciava a diramare avvisi e ad organizzare posti di blocco.
Io ero paralizzato, intrappolato dal panico quando il telefono squillò di nuovo:
- Ciao detective sono il tuo peggiore incubo e ho qui tua moglie e le bambine, abbiamo intenzione di fare un lungo viaggio insieme, molto lontano da te-.
Sentivo Susan la più piccola piagnucolare in sottofondo e la voce di Rachel che cercava di rassicurarla.
- Dimmi cosa vuoi da me bastardo – esplosi urlando – se le tocchi sei morto, lo sai vero? – Sentii una voce fredda e dal tono basso che mi diceva: - Voglio una nuova identità, un passaporto straniero e tu che mi accompagni all’aeroporto. C’è un volo New York – Caracas che parte stasera. Hai tre ore di tempo, cerca di sbrigarti altrimenti mi potrei divertire molto con tutte e tre. Clic – La voce non c’era più.
- Devo stare calmo - dissi a me stesso ad alta voce – devo stare calmo se voglio riportarle a casa -. Ben è al mio fianco, abbiamo dimenticato la nostra testimone, che ci sta fissando con gli occhi gonfi di lacrime.
Ben le si avvicina e le si rivolge con dolcezza – Mi ascolti signorina Gray, adesso abbiamo ancora più bisogno del suo aiuto. Deve cercare di ricordare se qualcosa nei giorni precedenti la sua aggressione le è sembrato fuori dal normale, una persona sospetta, un auto, qualunque cosa. Lei chiuse gli occhi tentando di concentrarsi, poi parlò – Ho avuto la sensazione che qualcuno mi spiasse, mi pedinasse. Ecco, adesso ricordo di aver notato un furgone davanti al bar dove lavoro. Uno di quelli che usano gli operai delle società elettriche o telefoniche. Ma poteva essere chiunque -.
- Ti prego Jennifer, stai andando molto bene, cerca di fare ancora uno sforzo. Prova a visualizzare il furgone e a descriverlo -. Le dissi io.

Dovevo avere un aspetto spaventoso, infatti si rivolse verso e Ben e proseguì: - Credo di aver notato lo stesso mezzo anche sotto casa mia una mattina, aveva una scritta rossa sulla fiancata -. Poi mi aveva chiesto un foglio e una penna e si era messa a scrivere: CAR SERVICE – 124, 58ma Highway Brooklyn.
– Sicuramente ho letto e memorizzato quella scritta, ma la mia memoria deve averla cancellata a causa dello shock -.
Saltai in piedi insieme a Ben – Dobbiamo correre – gridai – avverti le pattuglie più vicine, andiamo -.
Arrivammo sul posto e vedemmo il furgone parcheggiato fuori, entrai per primo con la pistola in mano e Ben alle mie spalle. Vidi quel bastardo di Drake puntare un’arma contro Rachel e le bambine. Le aveva fatte sedere per terra e poi legate a una colonna di cemento. Ero colmo di rabbia, letteralmente in preda ad una furia omicida. Gli arrivai in silenzio alle spalle e gli puntai la pistola alla tempia. – Mi tremava la voce- Ti ammazzo – Gli dissi.
Lui aveva abbassato l’arma ma io no, continuavo a premere con la bocca della pistola contro la sua tempia quando sentii la voce di Ben dietro le mie spalle che mi chiedeva di consegnarli la pistola. Me la tolse di mano che ancora tremavo, allora mi precipitai da Rachel, le piccole piangevano, chiamavano il mio nome: le abbracciai forte dicendo loro che era tutto finito.
Mia moglie piangeva e mi baciava mentre cercavo di slegarle. Uscii tenendo in braccio Susan e Carol, con Rachel aggrappata al mio braccio.
Fuori le pattuglie e l’ambulanza lampeggiavano, il caldo del pomeriggio era mitigato da una brezza leggera che le scompigliava i capelli. Salimmo in auto in silenzio.
Distesi sul letto, le bambine che dormivano abbracciate nell’altra stanza, facemmo l’amore a lungo, come se fosse la prima volta. Anzi come se fosse l’ultima.

1 commento:

  1. Grazie di aver pubblicato il mio racconto. Te ne invierò altri al più presto. Ragazzi leggetelo!
    Un bacio. MIchy

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