Kaki King e Murakami










Kaki King è una chitarrista statunitense tra le più interessanti degli ultimi anni. L'abbiamo incontrata al Bronson di Ravenna e le abbiamo chiesto quale sia il suo approccio con il mondo dei libri.


KK: "Questo per me è un giorno triste. Oggi ho terminato un libro di circa 1000 pagine, e ora non so che senso dare alla mia giornata".

Il libro di cui ci parla è 1Q84, un romanzo di Haruki Murakami, pubblicato in Giappone in tre volumi. Nel primo mese dalla data di pubblicazione è stato venduto più di un milione di copie, facendone un best seller. Il romanzo oramai è un oggetto di culto, è una storia che contiene tante altre storie, interi universi. 
In Italia e nel resto del mondo ne girano edizioni che coprono i primi due libri dei tre della divisione originale giapponese. Il Libro 3 di 1Q84 uscirà nell'Ottobre del 2012 (ed. Einaudi).









“Il rumore di una tessitura
ti fa socchiudere gli occhi e sorridere,
come quando si corre mentre nevica.
Il rumore della tessitura
non si ferma mai,
ed è il canto
più antico della nostra città,
e ai bambini pratesi
fa da ninna nanna.”












... ti piacerebbe vivere in un mondo in cui tutti campano solo di cultura, un mondo meraviglioso in cui si potrebbe pagare il macellaio con un racconto, il barista con una poesia, costruirsi una casa con un romanzo?



milano marittima

Sulla spiaggia, mentre facevo lo slalom tra i bagnanti che vociavano e fumavano e si tuffavano in acqua e ridevano di nulla, tra i bambini che piangevano con la sabbia negli occhi e le mamme che li rincorrevano per consolarli e i vecchi che sembravano saggi solo perchè sedevano zitti a guardare il mare, non riuscivo a non pensare a che cosa farà tutta questa gente quando i loro posti di lavoro si volatilizzeranno, come sta per succedere. 
E io? Che farò, io?




Thomas Pynchon - V.


chi fa un mestiere normale per mantenersi mentre scrive è convinto di prendere il meglio dai due mondi, ma prende solo il peggio, perchè non potendosi mai dare totalmente a una cosa sola finisce per vivere una vita in attesa, frammentata e interrotta, parziale e priva di risultati, fatalmente infelice.

K.

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Sono convinto, Lucas, che ogni essere umano è nato per scrivere un libro, e per nient'altro. Un libro geniale o un libro mediocre, non importa, ma colui che non scriverà niente è un essere perduto, non ha fatto altro che passare sulla terra senza lasciare traccia.

Simone Perotti

"Un romanzo, un saggio, un libro di testi e fotografie, sono il risultato di un lungo viaggio, di un lungo pensiero. Quando si termina una storia si cade in una grande prostrazione. I personaggi amati, odiati, temuti, desiderati, improvvisamente scompaiono. Vivono ormai di propria vita. Il lungo tempo della convivenza, dei pensieri congiunti, è finito. Ma sono state ore, mesi, anni di fratellanza, di amore. Tutto questo, per poco o tanto che possa sembrare, è ormai per gli altri, per un lettore sconosciuto che piangerà o riderà o si struggerà seguendo un sentiero dove sono stato io, aperto da me nella giungla vergine della fantasia."





“Una delle cose che sappiamo fare di meno è perdere tempo. Perdere tempo è una delle cose più belle del mondo, soprattutto per chi non l’ha mai perduto.” 


RACCONTI NOTTURNI

RACCONTI NOTTURNI è arte in libertà. 
Una notte di poesia, musica, teatro, arti visive in cui tutto prende vita intorno a noi. Passioni che provano a fondersi, emozioni che nascono dal desiderio di condivisione. 
 
Carmine Liccardi e sua Bottega di Scrittura vi invitano ad una piccola magia che si realizzerà grazie anche alla vostra partecipazione. 
 
15 Aprile ore 20:30 presso la libreria Fahrenheit di San Giovanni Valdarno.

 

Dino Lampa



Dino Lampa in "action comedy solo show"

Con un poco di zucchero

di Enzo Fileno Carabba
 
Giulia e Camilla, vecchie signore di nobili natali piene di vita, da anni condividono una volontaria reclusione in un grande appartamento fiorentino. Solo a Emiliano, il rosticciere con fattezze da orco, concedono l’accesso alla loro fortezza, perché le rifornisca di cibo scadente ma pagato a peso d’oro. S...degnate dalla volgarità dei contemporanei, l’unica compagnia a cui per nulla al mondo rinuncerebbero è quella dei Lorocari, voraci e tozzi pesci della taiga che a volte assumono le sembianze dei loro affetti scomparsi.
Donne di antica bellezza, Giulia e Camilla si muovono con grazia in un regno di mobili in palissandro, morbide pellicce, fili di perle e straordinarie conchiglie, scampoli dei fasti di un passato glorioso, prigioniere del tempo e dei ricordi. E se i confini dello spazio reale si ritirano sempre più nell’antro ombroso del salotto, tutto ciò che le principesse possono fare è ampliare il territorio dei sogni. Per questo occorrono però abbondanti dosi di pozione magica. Tagliata bene, possibilmente. E, soprattutto, a domicilio.
Ma cosa può succedere se Piero, il loro personale fornitore di zucchero incantato, muore all’improvviso? Le due dame si trovano costrette a prendere una decisione fatale: avventurarsi in città per procurarsi loro stesse la preziosa pozione necessaria per continuare a condurre una vecchiaia spensierata. Uno sbuffo di cipria e un velo di rossetto, indossati i copricapo migliori, eccole pronte ad affrontare il mondo con innata audacia.
L’impresa si rivela più difficile del previsto, e le due spavalde signore si trovano ben presto trascinate in una rocambolesca avventura, tra pestaggi, vendette, inseguimenti e cadaveri di cui sbarazzarsi, fino alla comparsa di un’intraprendente nipote mai vista prima: sarà lei la Nera Signora venuta a prenderle per riunirle ai Lorocari? Nel frattempo l’Arno gorgoglia e ribolle, le sue acque si trasformano in magma denso e la piena sale e sale...
Una commedia leggiadra e irriverente, nera come il caffè che sgorga dalla moka nella cucina delle due principesse, cristallina come la risata delle ragazze di una volta. Con acume ed eleganza Enzo Fileno Carabba ci regala un romanzo surreale e agrodolce, che attinge al passato per sorridere del presente, che esorcizza le nostalgie e si fa beffa di ogni angoscia: in fondo basta saper ridere, fino alle lacrime.

Enzo Fileno Carabba è nato a Firenze nel 1966. È autore di romanzi e racconti fantastici e noir. Tra i suoi libri: Jakob Pesciolini (Einaudi 1992), vincitore del premio Calvino, La regola del silenzio (Einaudi 1994), La foresta finale (Einaudi 1997), Pessimi segnali (Marsilio 2004), e il romanzo per ragazzi Fuga da Magopoli (Salani 2010).

PASSEGGIANDO PER BOURBON STREET

di Raffaello Guido Coraggio

Un'incursione tra i vapori, le nebbie e le suggestioni obnubilanti dell'alcool. Tra immagini oniriche e stranianti, in un mondo distorto e disinibito. Una dimensione alterata, figlia delle volute fumose della perdizione "stupefacente", nella quale niente è impossibile. Ma, soprattutto, un rifugio, una sorta di "taverna" dello spirito che, tra gli anelli di fumo disegnati da un sigaro sbuffante davanti a un doppio bourbon con ghiaccio, lascia filtrare come un prisma traslucido le verità più profonde ed autentiche, inenarrabili e sconvenienti. Diventando reale, cinico, doloroso specchio dell'interiorità tormentata dell'autore. Vittima del suo "spleen" ancestrale, quello stato di malinconia latente e indistinta che come una coltre di fumo velenosa incombe greve sui sentimenti quotidiani, il protagonista di Passeggiando per Bourbon Street  ci racconta la sua vita stuprata e disincantata, fatta di fondi di bottiglia frantumati sui cocci di sogni abortiti, di rimpianti mai estinti né sopiti, di demoni e inquietudini che popolano la sua fervida immaginazione senza riposo. Ma ci canta anche di amori intensi, estremi, brucianti. Di chimere meravigliose e struggenti, nelle cui acque dolcemente specchiarsi e smarrirsi e annegare. Di passioni inestinguibili come la fiamma di un fuoco che, pur esposto alle intemperie dell'anima volubile e caduca, arde in eterno.

(dalla prefazione)

LA CITTA' E LA NEVE

Vanni Santoni e Enzo Fileno Carabba per "LA CITTA' E LA NEVE"

Prende il via "La città e La neve", blog prima (http://lacittaelaneve.splinder.com) e raccolta di racconti poi che vedrà l'intervento del folto numero di scrittori che hanno preso parte al corso di scrittura creativa "Officina del racconto" a San Giovanni Valdarno.

La città e la neve

Cari amici,
dall'idea di un gruppo di spericolati..nasce oggi il blog "La città e la neve",  il racconto della neve del dicembre duemiladieci a Firenze scritto dai lettori. Un raccoglitore di storie legate in qualche modo a quella incredibile giornata. La richiesta è quella di postarlo il più possibile, mandare idee foto e storie che riguardano appunto quel venerdi 17 dicembre.
                                                                                                                  Saluti, Carmine Liccardi

CARNEVALE OGNI SCHERZO VALE


Racconto di Michela Fabbrini


Quando mi sposai  avevo già il cane da due anni.  Virginia non ne voleva sapere e fece di tutto per convincermi a darlo via, si inventò addirittura  una  specie di allergia. Ma io su questo argomento, l’unico, fui irremovibile: se mi voleva, doveva accettare anche la Lola. Prendere o lasciare.
Uscii per far pisciare il cane, ero quasi certo che Virginia mi tradisse. Avevo spiato il suo computer, il cellulare e anche la posta  ordinaria che ormai non la usa più nessuno. Quel giorno era martedì grasso, già il nome mi fa schifo. A Parma tirava un vento gelido sferzava la faccia, ma a Lola piaceva. Le feci fare un giro intorno all’isolato, il ghiaccio scricchiolava sotto le scarpe, io continuavo a rimuginare. Ultimamente Virginia passava molto più tempo al cellulare, il suo capo gliene aveva dato uno da usare per il lavoro, stranamente era proprio identico al suo. Pensai fosse una delle sue fissazioni da modaiola: magari era un colore che s’intonava con i capelli o con lo smalto. Ma ora ne ero certo: lo aveva scelto apposta per confondermi.
Era in procinto di partire per Venezia, andava a festeggiare il carnevale con  due  amiche,  mentre  io sarei rimasto a casa con Lola: primo perché non sapevo a chi lasciarla e secondo perché non avevo nessuna intenzione di farlo.  E poi il carnevale mi fa tristezza, soprattutto quello di Venezia: canali puzzolenti stracolmi di gente imbellettata. Tutti ubriachi fradici a ciondolare per strada o a tirare cocaina nei palazzi dei vips. Non fa per me. Virginia stava chiudendo nervosamente il suo trolley Samsonite quando mi apostrofò in tono acido – cerca di non dare fuoco alla casa mentre sono via, se ci riesci-. Io risposi sarcastico: - ma certo tesoro, comunque lascia a portata di mano il numero dei pompieri, non si può mai sapere. –A proposito cara – dissi facendo l’indifferente - prendo un attimo il tuo cellulare, voglio memorizzare il numero di Sara, così se il tuo è spento posso chiamare lei. - Mentre salivo le scale con la sua borsa in mano, mi corse dietro inferocita: - non ti azzardare a toccarla! – Virginia era sempre stata una ragazza molto riservata e non avrebbe permesso a nessuno di infilare le mani nella sua preziosa borsetta. Stavolta però era proprio infuriata. Anche questo era strano. Infilai la mano ed ebbi fortuna: estrassi il telefono dell’ufficio ma feci appena in tempo a leggere le ultime chiamate, prima che mi piombasse addosso. Erano quasi tutte di un certo Massimo ed erano tante. Mi strappò il telefono di mano.  –Adesso non ho tempo per discutere con te stronzo, Sara e Giulia mi stanno aspettando fuori, ma quando torno non te la passi liscia, te l’assicuro-. Detto ciò uscì sbattendo la porta.
-Eccoci qua  Lola,  finalmente soli.- Lei annuì agitando la grossa coda pelosa: al contrario di Virginia che non l’ha mai degnata di uno sguardo a me faceva piacere la sua silenziosa presenza.- Dobbiamo scoprire chi è questo Massimo che sente tanto spesso.- mormorai. Arrivare a lui fu più semplice del previsto: dopo aver telefonato a un paio di amici comuni  scoprii che l’uomo misterioso altro non era che il vice direttore della Antonveneta,  una delle banche con cui Virginia collaborava come promotrice finanziaria. Un bell’uomo in effetti, lo conoscevo di vista, anche affascinante a modo suo, sposato e con tre figli.  Provai a chiamare questo Massimo in ufficio con una scusa, tipo chiedere un consiglio su alcuni fondi d’investimento, mi rispose la segretaria, disse che il Dott. Minardi aveva preso un giorno di ferie e  sarebbe rientrato l’indomani. Non poteva essere una coincidenza. Da Parma a Venezia sono trecento chilometri e io ero intenzionato a percorrerli per fare ad entrambi una splendida sorpresa, diciamo un scherzo di carnevale.
Partimmo io e la  Lola, non sapevo esattamente dove poteva essere Virginia, ma  non sarebbe stato difficile trovarla. Infatti ieri aveva indosso un bel vestito di  broccato rosso da cortigiana, con un cappello a veletta e uno scialle di raso neri. L’ho vista mentre se lo provava davanti allo specchio: era bella da mozzare il fiato. Tanto bella quanto stronza. - Che abito sontuoso – dissi – speriamo che non piova domani sennò lo ridurrai uno straccio - . -Sai Luca, ogni giorno che passa mi accorgo di aver sposato un cretino;  ti sembro il tipo che passa l’ultimo  giorno di carnevale a Venezia per strada?- Inveì. - Sappi che sono ospite di uno dei party più cool della città:  il mio costume scivolerà su tappeti persiani e lussuosi pavimenti,  altro che fango. Poi i suoi occhi si posarono su Lola: - Ehi bestiaccia tieni fuori dalla mia camera le tue zampe sudice!- Il cane non alzo neanche lo sguardo, continuò a fingere di dormire.
Arrivammo a Venezia verso le quattro del pomeriggio, volevo procurarmi un costume adatto per la mascherata a sorpresa.  Mi venne in mente “Il cappello  a  sonagli” di Pirandello :  un copricapo con le corna poteva rendere l’idea, ma ci ripensai: non avrebbe capito, anzi se avessi nominato Pirandello avrebbe potuto pensare a una nuova marca di cappelli. Mi ero portato una  macchina fotografica digitale ed intendevo usarla per immortalare i due amanti sul pezzo. Il problema era che Lola non avrebbe potuto seguirmi, comunque speravo di trovare una soluzione.
 Parcheggiai nei pressi di piazzale Roma e mi avviai verso il centro, fatti pochi metri la mia attenzione fu attratta da una ragazza: era seduta su una panchina e dava da mangiare ai piccioni, appena si  avvicinavano li fotografava in primo piano. Era giovane, indossava abiti molto ampi, aveva occhiali spessi e una sciarpa con i colori della pace arrotolata due volte intorno al collo. Mi avvicinai per guardarla, poteva essere la soluzione. -Ciao - le dissi -Perché fotografi i piccioni?- Mi squadrò da capo a piedi con curiosità e poi rispose -Lo faccio per ricordo: tra qualche anno saranno tutti morti  e di loro non resterà nessuna memoria,  certo non posso fotografare tutti i piccioni della città, ma almeno quelli del mio quartiere, quelli che stanno in questa piazza e mangiano il mio mangime-. Lola le si stava strofinando con il muso contro le  ginocchia e mugolava chiedendo una carezza. -Come ti chiami le domandai? –Arianna -. Rispose. Le chiesi se poteva occuparsi del cane fino che non fossi tornato, in cambio offrivo 50 euro e un chilo di mangime per volatili. Ne fu entusiasta, accettò subito di tenere Lola e mi indicò il palazzo dove viveva. -Puoi venire a prenderla a qualsiasi ora, io sarò a casa dopo le nove: odio questa maledetta festa di uomini mascherati.- Mi disse quale cognome cercare nel citofono e ci salutammo. Lola scodinzolava lieta accanto a lei: mi sentii più tranquillo e deciso ad agire.
Piazza San Marco era il caos, m’infilai in un vicoletto laterale, dove si affittavano costumi a  prezzi modici. Era un negozio un po’ malmesso ma il proprietario fu molto cortese e mi dette ottimi consigli. Uscii da lì perfetto e irriconoscibile, adesso non mi restava che trovare la festa più fashion della città ed imbucarmi. Per ringalluzzirmi ancora di più mi fermai in un bar e mandai giù un paio di grappini. Mi scaldarono lo spirito ed il corpo. Poi comprai uno di quei giornaletti di gossip, dove erano elencate le migliori feste mondane di Venezia. La più fashion era sicuramente quella della contessina Brenda Monaldin, alla quale avrebbe partecipato addirittura Fabrizio Corona. Fui certo che era quella giusta, me lo sentivo. Il palazzo dove aveva luogo il party era circondato da agenti della sicurezza o buttafuori, forse guardie del corpo. Non sapevo bene cosa fossero ma erano alti, grossi e muscolosi. A differenza mia che sono piuttosto basso per essere un maschio, e pure mingherlino. Mia moglie le poche volte che uscivamo insieme si lamentava di non poter indossare i tacchi perché mi avrebbe superato di una spanna, e questo secondo lei non stava bene.

Davanti all’ingesso principale era tutto un via vai di vaporetti che lasciavano gli ospiti e ripartivano, vidi  una barchetta da carico e scarico merci attraccare di lato, davanti a una delle porte di servizio. Dovevo riuscire ad entrare da lì. Attesi ancora una mezz’ora, quando ecco arrivare un motoscafo molto più grande, pieno zeppo di bevande e cibo. Mi avvicinai al bordo del canale e la barca rallentò passandomi vicino, così ci saltai dentro. Afferrai al volo una bottiglia di vino rosso e mi nascosi dietro alcune casse, nell’angolo più vicino all’uscita. Appena i due energumeni che erano sbarcati iniziarono a scaricare svicolai dentro con l’agilità di un gatto. Ce l’avevo fatta, avrei assaggiato il calice della vendetta, ma per il momento, con un cavatappi che faceva al caso mio, assaggiai il vino direttamente dalla bottiglia. Adesso si che mi sentivo eccitato e bello carico per affrontare i due fedifraghi, cioè i due stronzi che mi facevano cornuto. Ero travestito da orso, un orsacchiotto peloso con una maschera dal sorriso idiota che mi copriva il volto. Feci un giro in pista, la gente ballava e beveva, ma non vidi la cortigiana vestita da zoccola, perciò salii ai piani superiori. C’erano un infinità di stanze da entrambi i lati del lungo corridoio che percorrevo, alcune chiuse a chiave, altre no. Io barcollavo un po’: il vino era finito tutto nella pancia dell’orso che infatti si sentiva brillo. Mi fermai di fronte a una porta semichiusa, sentivo  rumori provenire dall’interno, mi avvicinai lentamente e appoggiai  la mano sulla maniglia: riconobbi distintamente la voce di mia moglie che ansimava  e gemeva, chiedendo al suo vicedirettore di impegnarsi ancora di più. Feci il mio ingresso in scena urlando,  non dimenticherò mai le loro facce sbalordite: lui era rosso come un  peperone per lo sforzo e per la vergogna, lei invece avrebbe voluto sbranarmi e divorarmi, come una tigre. Fu questo il magnifico istante che immortalai, con tre o quattro scatti veloci mentre il flash li accecava. Poi dissi sbeffeggiandoli: - A carnevale ogni scherzo vale. Peccato che domani quando sua moglie riceverà le foto la festa sarà finita.
Venni via dalla stanza di corsa, avevo molto vantaggio, essendo  loro completamente nudi non potevano  rincorrermi, ma soltanto urlarmi dietro. Uscii dalla porta principale e saltai su un vaporetto, nessuno nella ressa si accorse di me. Avevo voglia di vomitare, mi affacciai al parapetto e respirai l’aria gelata a pieni polmoni. Quando giunsi a Piazzale Roma avevo bevuto altre tre grappe strada facendo, sentivo le mani e i piedi congelati e la testa mi prendeva fuoco. Mi riposai un attimo seduto sulla panchina dove avevo incontrato Arianna, tirai fuori la macchina fotografica e dopo essermi accertato che le foto di quei due erano venute bene, fotografai un piccione che avevo di fronte. Poi suonai il campanello, Arianna mi fece cenno di salire, trovai a tentoni le scale ed entrai in casa. Lola abbaiava come una forsennata: non avevo tolto il vestito da orso. Quella strana ragazza scoppiò in una fragorosa risata. - Lola sono io, ma non mi riconosci cucciola?- Mi tolsi quel coso peloso e lei  mi zompò addosso leccandomi la faccia. – Non so come ringraziarti, Arianna, sei stata davvero gentile. Mi rispose – Al contrario è stato un piacere, mi ha fatto molta compagnia, in questi giorni le mie coinquiline passano la notte a folleggiare e io rimango a casa da sola.
C’era il caminetto acceso e nella stanza faceva caldo, ricordo di aver chiacchierato a lungo e il viso dolce di lei che mi sorrideva, poi il buio. Al mattino, mi trovai disteso sul divano, coperto con un  sacco a pelo e con  Lola addormentata placidamente  sulla mia pancia. Stavo riprendendo lentamente conoscenza quando dalla stanza accanto apparve Arianna, aveva i capelli arruffati, una specie di tunica di lino colorato e gli infradito di cuoio ai piedi: la trovai splendida. Notai  un bel seno grande e dei  capelli  rosso fiamma. – Ci facciamo un caffè signor orso,  non so neanche come ti chiami-. Arianna in quel momento non portava gli occhiali, aveva le lentiggini sul naso, e strizzava gli occhi per mettermi a fuoco, come sempre sorrideva anzi i suoi occhi sorridevano.
-Devo essere svenuto ieri sera, avevo bevuto parecchio sai – le dissi. – Sì, ti sei addormentato sul divano quando sono andata in bagno. Rispose. -Comunque io mi chiamo Luca,ieri ho avuto una giornata pazzesca e ancora non ne sono del tutto fuori-.  Le raccontai la mia storia, mentre in casa di diffondeva un piacevole odore di caffè. Arianna e Lola mi ascoltavano con il mento all’insù e ogni tanto Arianna scuoteva la testa. Alla fine mi chiese perché avevo sprecato il mio tempo prezioso con una tale stronza. E io non avevo una risposta. -Devo tornare a casa per fare le valigie-dissi cercando di mettermi in piedi, - del resto si occuperanno i nostri avvocati, non la voglio neanche rivedere -. Pronunciai queste parole con rabbia, poi la mia voce si addolcì:-sai le squallide foto che ho scattato ieri sera,  ho deciso di cancellarle : volevo solo spaventarli a morte. Per caso il tuo divano e il sacco a pelo sono prenotati per la notte? Perché mi prendo qualche giorno di vacanza e torno da te. – Lei inforcò gli occhiali e rispose mostrandomi i denti  perlati  in uno smagliante sorriso:- Sei molto carino piccolo  orso. Inoltre nella mia camera c’è un letto grande e soffice: possiamo dividerlo in tre, vero Lola? Vai pure a dare fuoco alla casa, io e lei ti aspettiamo per cena-. Arianna mi schiocco un bel bacio sulla bocca e sparì in bagno. io accarezzai il cane che scodinzolava felice. Dopo aver eliminato quelle immagini lasciai sulla tavola la macchina fotografica: sul display si vedeva in primo piano un grasso piccione.


 

IL SEQUESTRO


Racconto di Michela Fabbrini



Successe in estate. Ricordo che faceva molto caldo a New York. Mia moglie e io avevamo appena litigato. Rachel aveva già caricato le bambine sulla giardinetta. Mi avvicinai al finestrino della macchina. Aveva il volto disteso e rilassato ma le mani poggiate sul volante tradivano un leggero tremore. Io la guardai: -Sapevi che ero un sbirro quando mi hai sposato, lo ero già. E sapevi come sarebbe stata la nostra vita – le dissi. – E’ vero Steve lo so, me lo dici sempre ma, le cose cambiano e le nostre bambine stanno crescendo senza di te. Da quando ti hanno promosso Detective della Omicidi non hai più un attimo di tempo per la tua famiglia – si fermò un istante – non hai più tempo per me.

- Papà perché alla mamma scendono le lacrime?- squittì Susan la più piccola delle due, aveva quattro anni e un grosso ciuccio in mano, mi fissava con la  testolina reclinata di là dal vetro. La più grande, Carol, le rispose – Stai zitta, papà e mamma stanno discutendo.- Aveva un’aria molto seria. Susan si sganciò dal seggiolino e scavalcò Rachel tentando di uscire dal finestrino e arrampicarsi sulle mie braccia. Scese dall’auto anche Carol. – Ascolta tesoro facciamo così – le dissi aprendo lo sportello per abbracciarla – tu e le bambine andate dai nonni, lasciami concludere questa maledetta indagine, appena avrò arrestato quel bastardo stupratore di Drake che sta terrorizzando la città da mesi, ti prometto che risolveremo tutto come abbiamo sempre fatto. Ricordati che noi due ci amiamo davvero, non dimenticarlo mai-.
Lei mi sorrise appena – Ho paura per te – mi disse – speriamo che quest’incubo finisca presto. Poi ci abbracciammo stretti e mormorò – ti amo anch’io maledetto sbirro-.
Le bambine nel frattempo stavano saltellando sul selciato, le mie due bambole d’oro. Sentivo già la loro mancanza, sapevo che sarebbe stata dura per noi: in nove anni di matrimonio non ci eravamo mai allontanati l’uno dall’altra per più di una notte o due.
Rachel sembrava più calma adesso, fece risalire le nostre piccole pesti sulla giardinetta, mi sfiorò le labbra con un bacio e se ne andò prima di scoppiare di nuovo a piangere.
Le guardai andar via salutandole con la mano finché non imboccarono la strada per l’aeroporto, poi rientrai in casa.
Sentivo alla bocca dello stomaco una specie di crampo, un’inquietante sensazione di pericolo, lì al momento la scambiai per rabbia: mi sentivo impotente e furioso, una brutta combinazione, e mi sentivo solo.
Presi una birra ghiacciata, il caldo torrido di quell’estate newyorkese sembrava premere sulle finestre dei palazzi: lottando contro le migliaia di condizionatori che appestavano la città permettendo agli abitanti di sopravvivere.
Accesi lo stereo e mi sedetti sul divano, le prime note di “Last train home” riempirono la stanza: Pat Metheny ha sempre avuto su di me un effetto calmante, la sua musica mi placa e mi aiuta a pensare.

Ero immerso nell’ascolto quando il telefono squillò: - Pronto capo sono Ben, sono in ufficio – La voce del mio vice era molto tesa. Ben Stone è un ragazzo biondo e alto, con un faccione da angelo e un fisico da lottatore di wrestling. E’ l’uomo più cortese e mansueto che abbia mai conosciuto, ma in quel momento era molto agitato.
- Ciao Ben, dimmi ci sono novità? – chiesi. “Sì, novità molto importanti, ricordi la ragazza aggredita da Drake che è riuscita a salvarsi? Jennifer Gray, la nostra unica testimone, ecco lei è qui nel tuo ufficio. Non voleva assolutamente parlare con noi perché era troppo spaventata ma adesso ha cambiato idea. –
Saltai su dal divano e risposi: - Ok Ben ascoltami bene, io arrivo subito, tu nel frattempo lasciala tranquilla, portale un caffè e aspettami. – Mi infilai un paio di jeans e salii in macchina, l’abitacolo era un forno e il volante mi bruciava le mani ma correvo veloce verso Brooklyn.
Mentre guidavo cercai di immaginare questa povera ragazza che aveva subito violenza dal quel maniaco figlio di puttana e ne era uscita viva, probabilmente suo malgrado. Pensai a Rachel, ai suoi occhi spaventati e sperai che stavolta fosse quella buona, volevo arrestare il bastardo e vederlo marcire in galera.

Arrivai davanti agli uffici del Dipartimento e salii due rampe di scale. Fuori l’asfalto si scioglieva, dentro l’aria condizionata mi fece rabbrividire. La nostra sede di Brooklyn è un grattacielo di vetro e acciaio dove gli ambienti non hanno pareti, solo tante scrivanie e facce diverse separate appunto da vetro e acciaio. Fortunatamente i detective hanno uffici chiusi e separati e dentro il mio, Ben mi stava aspettando gettando occhiate preoccupate verso il vetro che separa la mia stanza da quella degli interrogatori. Dall’altra parte c’era una ragazza seduta, una giovane dallo sguardo perso nel vuoto e un caffè tra le mani. 
- E’ lei? – Chiesi?
- Si capo – rispose Ben, sua madre l’ha convinta a parlare con noi. E’ stata aggredita mentre tornava a casa, lavorava in un bar. Sempre lo stesso metodo: uno straccio imbevuto di etere sulla bocca in un luogo poco illuminato non lontano da dove vive.
- Sicuramente l’aveva spiata per giorni, conosceva i suoi orari e i suoi spostamenti. Avrà studiato l’assalto. Come le altre vittime, Drake l’aveva caricata sul suo furgone e probabilmente voleva violentarla, per fortuna il bastardo era stato messo in allarme da qualcosa o qualcuno ed era fuggito di corsa, gettando Jennifer Gray in mezzo alla strada, per questo non l’ha uccisa.  Questo lo so già Ben, è nel rapporto –
Mi rispose mentre cercava di togliere un granello di povere invisibile dalla cravatta:
- Ha detto di aver cercato di sollevarsi e che poi qualcuno, forse uscito da una casa lì di fronte, l’aveva soccorsa-.
Com’era sensibile Ben lo si capiva dalla sofferenza con cui mi faceva quel resoconto. Comunque proseguì cercando di tenere a freno l’ansia. - Per giorni era rimasta sotto shock, ricoverata in ospedale. Quando l’hanno dimessa è tornata a casa ma era troppo spaventata per parlare con la polizia. Sono trascorsi alcuni giorni poi stamani la madre della ragazza ha chiamato il nostro ufficio. Così sono andato a prenderla-.

Attesi un momento che Ben riprendesse fiato, non avrei potuto fare a meno di lui, anche se rimaneva in silenzio ad assistere: a dispetto della sua immensa timidezza il mio vice aveva una faccia così rassicurante e due occhioni blu intensi che gli consentivano di trasmettere fiducia fin dal primo istante.
Entrammo e mi sedetti di fronte a lei, Ben invece le si mise accanto. Sembravano David e Golia: lui enorme lei piccola e minuta, entrambi biondissimi. 
- Ciao Jennifer sono il detective Steven Tomson, apprezzo molto la tua decisione, non deve essere facile per te affrontare tutto questo. – La ragazza mi guardava in silenzio aspettando che proseguissi. Era molto pallida, aveva un bel viso incorniciato da lunghi capelli biondi. – Inizia a raccontarmi che cosa è successo quella sera, abbiamo bisogno del tuo aiuto per riuscire a fermare quel pazzo-.
Mi disse come Drake l’aveva sorpresa e narcotizzata poi aveva ripreso i sensi all’interno del furgone, era molto buio, dentro c’era lo stesso odore delle autofficine. Lui le stava addosso e le tappava la bocca, aveva udito delle voci venire da fuori. Drake si era fermato, si era sollevato e le aveva messo le mani sulla gola, voleva ucciderla ma aveva una gran fretta di andarsene quindi l’aveva spinta fuori da furgone e se n’era scappato.

Decidemmo di fare una pausa e Ben si alzò per pendere altro caffè. Il telefono della mia scrivania squillò, alzando la cornetta provai un brivido lungo la schiena e fui certo che qualcosa non andava.
Detective Tomson – dissi. – Steve sono Rachel aiutami, Devil Drake ha rapito me e le bambine, c’era un uomo in panne, mi sono fermata per soccorrerlo e … - Pronto, Rachel! Pronto!-
Ben, appena realizzato cosa era successo, si era messo in azione: stava chiamando il capitano del nostro dipartimento e cominciava a diramare avvisi e ad organizzare posti di blocco.
Io ero paralizzato, intrappolato dal panico quando il telefono squillò di nuovo:
- Ciao detective sono il tuo peggiore incubo e ho qui tua moglie e le bambine, abbiamo intenzione di fare un lungo viaggio insieme, molto lontano da te-.
Sentivo Susan la più piccola piagnucolare in sottofondo e la voce di Rachel che cercava di rassicurarla.
- Dimmi cosa vuoi da me bastardo – esplosi urlando – se le tocchi sei morto, lo sai vero? – Sentii una voce fredda e dal tono basso che mi diceva: - Voglio una nuova identità, un passaporto straniero e tu che mi accompagni all’aeroporto. C’è un volo New York – Caracas che parte stasera. Hai tre ore di tempo, cerca di sbrigarti altrimenti mi potrei divertire molto con tutte e tre. Clic – La voce non c’era più.
- Devo stare calmo - dissi a me stesso ad alta voce – devo stare calmo se voglio riportarle a casa -. Ben è al mio fianco, abbiamo dimenticato la nostra testimone, che ci sta fissando con gli occhi gonfi di lacrime.
Ben le si avvicina e le si rivolge con dolcezza – Mi ascolti signorina Gray, adesso abbiamo ancora più bisogno del suo aiuto. Deve cercare di ricordare se qualcosa nei giorni precedenti la sua aggressione le è sembrato fuori dal normale, una persona sospetta, un auto, qualunque cosa. Lei chiuse gli occhi tentando di concentrarsi, poi parlò – Ho avuto la sensazione che qualcuno mi spiasse, mi pedinasse. Ecco, adesso ricordo di aver notato un furgone davanti al bar dove lavoro. Uno di quelli che usano gli operai delle società elettriche o telefoniche. Ma poteva essere chiunque -.
- Ti prego Jennifer, stai andando molto bene, cerca di fare ancora uno sforzo. Prova a visualizzare il furgone e a descriverlo -. Le dissi io.

Dovevo avere un aspetto spaventoso, infatti si rivolse verso e Ben e proseguì: - Credo di aver notato lo stesso mezzo anche sotto casa mia una mattina, aveva una scritta rossa sulla fiancata -. Poi mi aveva chiesto un foglio e una penna e si era messa a scrivere: CAR SERVICE – 124, 58ma Highway Brooklyn.
– Sicuramente ho letto e memorizzato quella scritta, ma la mia memoria deve averla cancellata a causa dello shock -.
Saltai in piedi insieme a Ben – Dobbiamo correre – gridai – avverti le pattuglie più vicine, andiamo -.
Arrivammo sul posto e vedemmo il furgone parcheggiato fuori, entrai per primo con la pistola in mano e Ben alle mie spalle. Vidi quel bastardo di Drake puntare un’arma contro Rachel e le bambine. Le aveva fatte sedere per terra e poi legate a una colonna di cemento. Ero colmo di rabbia, letteralmente in preda ad una furia omicida. Gli arrivai in silenzio alle spalle e gli puntai la pistola alla tempia. – Mi tremava la voce- Ti ammazzo – Gli dissi.
Lui aveva abbassato l’arma ma io no, continuavo a premere con la bocca della pistola contro la sua tempia quando sentii la voce di Ben dietro le mie spalle che mi chiedeva di consegnarli la pistola. Me la tolse di mano che ancora tremavo, allora mi precipitai da Rachel, le piccole piangevano, chiamavano il mio nome: le abbracciai forte dicendo loro che era tutto finito.
Mia moglie piangeva e mi baciava mentre cercavo di slegarle. Uscii tenendo in braccio Susan e Carol, con Rachel aggrappata al mio braccio.
Fuori le pattuglie e l’ambulanza lampeggiavano, il caldo del pomeriggio era mitigato da una brezza leggera che le scompigliava i capelli. Salimmo in auto in silenzio.
Distesi sul letto, le bambine che dormivano abbracciate nell’altra stanza, facemmo l’amore a lungo, come se fosse la prima volta. Anzi come se fosse l’ultima.

Sex and drugs and Rock&Roll _ 2

(di Rosella Cerrini)


Quella sera ci avrebbero  portate al “Pacha”, la discoteca più famosa, in occasione di una festa, il “Red fullmoon  party”. Per entrare si doveva pagare un  biglietto carissimo, oppure conoscere  le persone giuste. Naturalmente i nostri “fratelli e cugini” rientravano in questo ultimo caso.
Vicki usci dalla sua camera e tutti ci voltammo a guardarla, compreso Josè. Era una visione! Bella come il sole, stivali e minigonna argentati, poco più di un reggiseno bianco e tutti i suoi capelli, splendidamente biondi e lunghi, sciolti sulle spalle, sembrava la cantante bionda degli Abba. Stranamente, non mi sentivo né invidiosa, né in competizione con lei, la vedevo solo come una sorella maggiore, buona. Infatti ci prese per mano e ci aiutò a scegliere dei vestiti per quella sera.
-Ti stanno troppo bene quegli short!- mi disse tutta contenta. In realtà erano dei vecchi jeans tagliati talmente corti da richiedere una ceretta totale, dall’ inguine in su. Rifiutai decisamente le zeppe  rosse, che secondo lei andavano benissimo e preferii i suoi stivali “camperos” dal look più accettabile. Poi legandomi  dietro la schiena  un bellissimo foulard di seta indiana, mi guardò e disse: -Manca solo il tocco finale. Mi legò dei nastrini colorati intorno alla fronte e infine,  spalmò sulle palpebre e sulle guance un po’ di brillantini, che fino ad allora credevo servissero solo per creare un effetto Bianco Natale, un ultimo colpo di spazzola ai capelli sciolti sulle spalle e facendomi girare su me stessa  disse: -Sei bellissima! Adesso tocca a Laura!- Laura fu più docile. Accettò tutto quello che Vicky le impose, comprese le zeppe rosse ed era veramente carina in quella mini tunica indiana. Quando entrammo in salotto si sprecarono gli wow! e gli oooh! I ragazzi ci dissero che eravamo veramente super. -Andrès, mi prese in braccio e mi fece girare, poi mi baciò dolcemente. -Basta con le smancerie!- disse Josè e prendendo Laura per mano usci seguito da tutti noi.
Il Pacha era nuovo di zecca, l’avevano appena finito di costruire. Era in puro stile ibizenco: tutto bianco simile alle fincas, le case di campagna del luogo, ma in versione lussuosa.
Jesùs entrò per primo e fu accolto da Ricardo, il proprietario, e da Piti il dj. Ci presentarono  e da quel momento fu sottinteso che noi due potevamo entrare tutte le sere, gratis. La musica mi accolse, non mi aggredì, come di solito mi capitava nelle  discoteche. Non ero preoccupata né di come ero vestita, nè di chi c’ era o non c’era. L’ istinto mi diceva che lì si poteva ballare come e quando si voleva. Che sensazione fantastica! Andrés, quella sera era più carino del solito, mi stava accanto,ma senza invadermi. Vicky stava baciando e abbracciando gente ad ogni passo che faceva, accanto a lei Jesùs faceva la stessa cosa. Laura e José, poco più avanti, erano già nella prima pista accanto all’ingresso e ballavano tutti contenti.
Io stavo in disparte, con il mio angelo custode accanto. Eravamo molto in sintonia , quella sera Andrès ed io. Ci fu un leggero cenno dei suoi occhi, io capii al volo e, anche se mi vergognavo un po’, lo seguì in pista.  Per un po’ chiusi gli occhi e cercai di seguire il ritmo della musica, avevo paura che tutti mi criticassero;  come se poi fossi stata l’unica da guardare! Era pieno di bellissime ragazze, ma anche  meno belle, e tutti, uomini e donne, sembravano aver dato libero sfogo alla fantasia per vestirsi .I miei shorts non sfiguravano, anzi sembrava  essere una tenuta piuttosto in voga insieme ad  abiti e gonne argentati e dorati cortissimi, ma anche lunghi fino alla caviglia stampati a fiori o candidamente bianchi. Molti dei ragazzi  avevano  tuniche indiane su jeans estremamente sdruciti, altri portavano con disinvoltura, “saloppettes” di tela Jeans o bianche , sul torso nudo e ben abbronzato e quasi tutti sembravano se non belli, affascinantissimi. Mi girai un attimo e accanto a me era apparsa Vicky, mi porse un cocktail- Che è?- le chiesi.
-Un Cuba libre, rhum e coca, coca da bere, naturalmente!- ridacchiò, già un po’ su di giri. Ecco l’altra cosa nuova che imparai. Bere cocktail alcolici aiutava molto l’autostima, molto di più di costosissime sedute di psicoterapia.
La disinvoltura, che questi quattro ragazzi , sfoggiavano, contrastava armonicamente, con l’ingenuità e la gioia di vivere, che sembravano emanare da tutti i pori. Decisi che volevo essere come loro. Volevo entrare nel loro mondo, sembrava così facile! Ci riuscii per un breve tempo, anche perché alla fine di agosto tornarono a Bilbao . Quella infatti per loro, era la vacanza estiva, come, per noi di Firenze, era l’isola d’ Elba, ma che differenza di ambiente!
Ballammo tutta la notte o così mi sembrò. Ogni tanto, Andrès ed io ci abbracciavamo e ci baciavamo. Lui non era molto più alto di me, ma era “fatto molto bene”, come diceva Laura. Pelle scura abbronzata, lunghi capelli scuri, ricci, tipo “afro” e stupendi occhi azzurro,tonalità “ Laguna blù”, vagamente tristi. Insomma, non era il colpo di fulmine da mille e una notte, ma in quel momento era l’Amore. Però,per noi, anche quella sera, niente sesso e io ci rimasi male. - Sarà mica gay?- chiesi a Laura. – Ma dai! -Se uno non vuol venire a letto con te, è automaticamente gay!Chi ti credi di essere, la Venere di Milo?-
-No, che c’entra! Però, ecco, non so, è molto coinvolgente quando pomiciamo, poi, bò, mi prende per mano e passiamo di colpo alla versione “imbrocco vecchia maniera”-
-Ma è dolce, dai, magari è timido. E’ che te sei un po’ troppo “ unabottaevia”, da quando siamo arrivate -
- E’ proprio il bello di qui: non ti conosce nessuno, nessuno conosce i tuoi genitori o le tue sorelle, molti stanno qui solo qualche settimana,che male c’è? Comunque se non succede qualcosa entro dopodomani, sarà troppo tardi per conoscerci “biblicamente”. Jesùs ha detto che hanno trovato posto sul traghetto per il prossimo sabato, fra quattro giorni!-
Ma non successe niente, o meglio, continuammo a fare “i fidanzatini di Peynet” fino alla fine. In realtà, non era molto facile appartarsi in casa. Le camere da letto erano sempre occupate e comunque tutti andavano e venivano in continuazione e le porte erano sempre aperte. Sembrava che nessuno fosse molto interessato al sesso. La notte fra il venerdì e il sabato non andammo nemmeno a dormire. Il traghetto partiva alle otto e mezzo di mattina. Fecero le loro valigie e noi le nostre borse, poi andammo al bar “Juanito”  al porto per l’ ultima colazione insieme.
-Ce l’avete tutti la carta igienica?- chiese Jorge agli altri.
-Non c’è carta igienica sul traghetto?- chiese Laura sorpresa.
-Noooo! E’ una tradizione, qui. Quando si parte, ci si affaccia dalla spalletta e si tira giù il rotolo e te che ci saluti lo prendi e , mentre la barca parte, si aspetta che si rompa: quello è l’addio.- spiegò Vicki.
-Ah!- feci io. Credevo di avere capito male, ma quando arrivammo al molo, successe esattamente quello che Vicki aveva descritto. Sembravano ghirlande di carta bianche, che scendevano giù dalla nave. Mentre ci sbracciavamo a salutare, mi accorsi che non provavo tristezza o senso di distacco, come di solito mi accadeva in questi casi. Ero pronta per il prossimo episodio di “Roberta ad Ibiza”. E infatti, la sorpresa che mi aspettava da lì a poco, aprì un nuovo capitolo.
Raccogliemmo le nostre borse e prima di tornare all’ “hostal”, la nostra super economica pensione, ci fermammo alla “lista de correos”, il fermo posta locale, che era l’unico indirizzo che avevamo lasciato alle nostre famiglie.
L’impiegata mi consegnò quattro lettere. Le guardai abbastanza stupita, non mi aspettavo di ricevere così tanta corrispondenza per quel breve periodo di assenza da casa. Riconobbi la calligrafia svolazzante  tipo inizio 1900, di mia madre e ,come sempre, mi stupii la perfezione del suo scritto, per una donna che aveva studiato poco, solo fino alla “sesta elementare”, come amava sempre ripetere lei. Le altre tre erano sicuramente della stessa persona. Quella scrittura mi era familiare. Certo, mi aveva fatto tante volte i compiti di italiano e matematica, quando ero in crisi con la scuola:  Claudio! Era Claudio, oddio! Me ne ero praticamente dimenticata.
“Cara cinina”, cosi mi chiamava, ebbi un moto di stizza, leggendo quell’appellativo, che prima mi inteneriva, “che fine hai fatto? Mi manchi tanto, ho voglia di vederti… Quando torni? Ecc.ecc.eccetera. La prima e la seconda lettera andavano avanti così all’infinito. L’ultima, che era datata pochi giorni prima, diceva: “ Ho comprato il biglietto per Ibiza! Arriviamo il 18 Settembre alle 17,45!” –Arriviamo? Arriviamo chi?- mi domandò preoccupata Laura. Scorsi la lettera fino in fondo e risposi con un’unica parola: -Michele-.
Ero stata trasportata da un mondo all’altro in un nano-secondo.
-Che c’entra Claudio con Ibiza? E Michele?- Si chiese Laura ad alta voce.
-Oh cazzo! E ora che si fa?-
-Vuoi dire : cosa farai tu?- Disse Laura, mettendo l’accento sul “tu”.
-No eh, non mi abbandonerai mica, vero?- la implorai.
-Senti, io qui mi vergogno a scarrozzarmi dietro due fighettini della Firenzebene. Te lo immagini come arriveranno vestiti? Io si, che me lo immagino! Camicina Oxford azzurrina, jeans aderenti e stretti in fondo, mocassini di “Raspini”, golfino arrotolato e legato in vita…aiuto!-
In quegli anni, ancora, Ibiza non era conosciuta come meta di vacanza per gli italiani e la descrizione che aveva fatto Laura del tipico ragazzo fiorentino, che conoscevamo, era ahimè, perfetta. E aveva ragione la mia amica, sarebbero stati veramente fuori luogo! Ma, cazzo! Ero veramente così superficiale? Davvero non ero commossa dalla dedizione, che Claudio mi dimostrava? Aveva rinunciato al suo tanto desiderato soggiorno negli Stati Uniti, solo per vedermi e io mi sentivo invasa dal nemico? No, non ero così superficiale, si, ero commossa dalla sua dedizione e, si, mi sentivo decisamente invasa se non da un nemico, da un corpo estraneo.
Dovevo inventarmi qualcosa. Scappare in una finca in campagna senza luce né acqua e raggiungibile solo a piedi, non mi sembrava una buona idea. Cambiare isola per un po’ e andare a Minorca? Questo mai! L’ultima cosa, che avrei voluto, era andar via da Ibiza. E’ buffo, ma allora non mi posi il problema, di capire se amavo Claudio oppure no. Mi sentivo come obbligata a riceverlo degnamente.
-Dai troveremo una soluzione! Intanto andiamo a prepararci per stasera, finchè siamo sole!- Laura mi prese a braccetto e io non mi sentii più abbandonata dalla mia migliore amica, nel momento del bisogno.
Riuscii a non pensare più all’imminente arrivo di Claudio. In fondo mancava un sacco di tempo, circa dieci giorni!
-Lo sai?- chiese Laura, appollaiata sull’alto sgabello del bar del Pacha e sorseggiando il suo gin e tonic – c’hai proprio ragione, il barman è un amore! E ci sta offrendo un sacco di drink! Com’è che si chiama?-
-Carlos, e, comunque l’ho visto prima io, non fare la stronza, okay?- L’avevo detto tanto per dire, infatti sapevo benissimo, che vigeva fra di noi, una sorta di ferreo accordo di lealtà. Se a una delle due piaceva qualcuno, l’altra, automaticamente, se lo toglieva dalla testa come possibile amante o fidanzato, anche se ne fosse stata follemente innamorata.
-Non è comunque il mio tipo. A me piace il biondo, quello con la megamoto-
-Chi? Quello che sembra il californiano di quella pubblicità?-
-E’ vero! E’ vero! Sembra proprio lui! Come si chiamerà?-
-Non lo so, però ho visto che parla spesso con Dieter, che è tedesco.-
-Va bè, io non sono razzista, mi va bene anche se è tedesco! Bisogna vedere però, se vado bene io a lui!-
Questo era il momento della serata, nel quale stavamo di vedetta per vedere chi arrivava. La postazione l’avevo scelta io per poter parlare con Carlos. Ero lì già da un po’, ma non sembrava che servisse a molto, infatti mi aveva rivolto la parola solo per chiedermi cosa volevo bere. Chissà, magari aveva la ragazza e io ero lì a fare la figura della cretina. Eppure c’era qualcosa nel suo modo di parlarmi, che mi aveva fatto credere che gli piacevo. Bè, almeno tutto questo mi impediva di preoccuparmi per l’ arrivo di Claudio.




Sex and drugs and Rock&Roll _ 1

(di Rosella Cerrini)

Non lo davo a vedere, ma in quell’occasione, fui d’accordo con i miei, che dicevano: -Aveva un lavoro ottimo, in quell’ufficio, e ha mollato tutto, per andare, dove? Alle Baleari!- Ma io sapevo anche perché se ne era andata. Anch’io partii, a fine Agosto, con l' altra amica del cuore, Laura. Qui ebbe inizio la mia fuga. Allora non sapevo che sarebbe durata così a lungo.

“E’ qui che voglio vivere per sempre. E’ il Paradiso!” Pensai, mentre prendevo il sole a Cala San Miguel. Non lo sapevo ancora, ma quella fu la prima decisione irrevocabile e determinante della mia vita.
-Roberta! Roberta!- Laura stava cercando di scuotermi dal meraviglioso tepore in cui mi trovavo.
-Ehi! Lo vuoi o no‘sto spino?- No, in realtà non lo volevo, ma era una di quelle cose che si “dovevano” fare.
Eravamo sbarcate a Ibiza, Laura ed io, due settimane prima. Come due bambine nel paese dei balocchi eravamo rimaste incantate davanti a tutto. Laura, in particolare, era rimasta affascinata dalla quantità di droghe che giravano sull’isola e la disinvoltura con la quale tutti ne ostentavano l’uso.
Io amai tutto di quel posto da subito. Per me rappresentava la LIBERTA’ tanto agognata. Finalmente potevo dar sfogo alla fantasia vestendomi nei modi più pazzi e azzardati. Anzi, più eri stravagante, più era facile entrare nel girodiquellichecontano. Non c’erano limiti. E questo si estendeva anche  al comportamento sessuale. Non era affatto disdicevole cambiare partner ogni giorno, anzi.

-Ma come? Ne hai già acceso un altro?- chiesi prendendo lo spino.
-E dai! Non fare il grillo parlante pure qui!-.
-Non faccio assolutamente il grillo parlante, dico solo che si sta così bene qui, anche senza farsi le “canne”-
-Si certo. Stasera come ci arriviamo a Ibiza?-

In effetti questo era un problema da affrontare ogni giorno. Non avevamo un mezzo di trasporto e gli autobus locali erano quasi inesistenti. Ma questo faceva parte del divertimento. Facendo in continuazione l’autostop, incontravamo un sacco di gente. Si doveva solo stare molto attente alla gente del posto, che dagli anni sessanta in poi aveva visto stravolgere la propria terra e non approva, certo, le scostumatezze di noi straniere. “Los hippies” come dicevano loro, erano venuti a cambiarne i costumi e le abitudini. Poi avevano cominciato ad arrivare sempre più turisti di tutti i generi: ricchi imprenditori tedeschi e olandesi ed ex delinquenti francesi arricchitisi con l’ultimo “colpo”, molti avevano aperto locali e ristoranti alla moda nella Città Vecchia. C’erano cantanti rock, attori e modelle, più o meno famosi. C’erano poi gli spagnoli del continente. Molti di loro erano, come me in fuga dalla loro famiglia borghese. Io non facevo discriminazioni. Mi innamoravo di tutti, un giorno sì e l’altro pure. 

-No! Questo no! C’ha proprio l’aria dello stupratore di turiste!- Fece Laura, spingendo via il mio braccio col pollice da autostop e allontanandosi dal ciglio della strada. Quel giorno stavamo cercando un passaggio per andare al mare.
-Questi che stanno arrivando, si, però! – Dissi indicando un “Mehari” verde sporco che si avvicinava. Quel tipo di “fuori strada” andava per la maggiore, perché si adattava a tutti i tipi di fondo stradale. In effetti i tre ragazzi a bordo erano molto carini. Anche la ragazza era molto bella.
-!Holà! ?Que tal guapas?- chiese quello che guidava. Noi non parlavamo ancora spagnolo, ci capimmo con un po’ di inglese e un po’ di italiano spagnolizzato. Erano stupendi! Tutti e quattro. Ci portarono ad una bellissima caletta che si poteva solo raggiungere via mare o con quel tipo di auto.
Passammo tutta la settimana insieme a loro.
Nessuno fece sesso con nessuno, anche se dormivamo tutti insieme. Avevano una casa favolosa, in uno dei posti più esclusivi, il Golf di Roca Llisa, con piscina di acqua di mare, incastonata in cima alle rocce sul mare. Vicki era la sorella di Josè, quello che guidava, e stava con Jesus, che era decisamente il più bello. Andrès  era il loro cugino. Noi li chiamavamo “i fratelli e cugini”. Tornavamo dalle discoteche quasi al mattino. Ci sdraiavamo sui letti e sui divani e dormivamo, più o meno, fino al pomeriggio. Poi si andava in spiaggia . Notte e giorno ascoltavamo musica. Musica che ancora io non conoscevo, ma che divenne la colonna sonora di quella mia prima vita. Ancora oggi sentire i Santana di “Caravanserai” o i Pink Floyd di “Atom heart mother” evoca sensazioni quasi fisiche di quel tempo.

Un giorno ideale per i pescibanana


- Sharon Lipschutz dice che l’hai lasciata sedere sullo sgabello del piano vicino a te, - disse Sybil.
- Sharon Lipschutz ha detto questo?
Sybil annuì vigorosamente.
Il giovanotto le lasciò andare le caviglie, ritirò le mani e appoggiò una guancia sull’avambraccio destro. - Be’, - disse, - lo sai come vanno queste cose, Sybil. Ero là seduto che stavo suonando. E tu chissà dov’eri, in quel momento. E Sharon Lipschutz è venuta lì e a un certo punto si è messa a sedere vicino a me. Non potevo mica spingerla via, ti pare?
- Sì, che potevi.
- Oh no. No. Non potevo fare una cosa simile, - disse il giovanotto. - Ma sai cosa ho fatto, invece?
- Cosa?
- Ho fatto finta che fossi tu.

[J.D.Salinger. Nove Racconti, Einaudi]