La riscossa degli alter ego


(Racconto di Andrea Zurlo)

  Quando entrò in bagno e vide il pupazzo verde capì che era troppo tardi. Immaginò che fosse un avvertimento. Avvicinandosi, osservò che un pò del ripieno del pupazzo fatto di microsfere di polistirolo era disperso al piede del lavandino. Alcune delle palline bianche si erano appiccicate sull’asciugamano rosso. Soltanto loro avrebbero potuto portarlo lì dal suo nascondiglio in fondo all’armadio. Quegli omini erano capaci d’ogni atrocità, n’era convinto, perfino di torturare il pupazzo verde nonostante fosse innocente, che colpa n’aveva lui? Prese in mano il suo vecchio pupazzo e sentì il suo corpo afflosciarsi fra le dita ed osservò il suo viso contrarsi in un gesto sofferente, le guance e le orecchie da ranocchio spaziale persero importanza e fu, ancora una volta, soltanto un pezzo di tessuto verde forato. Le palline del ripieno del pupazzo si sparsero veloci sul pavimento, era caduto pure il pulsantino per farlo parlare e dire “Ciao amico” con quella sua vocina. Risultava ovvio che gli omini non erano più esseri inermi, ma, a chi poteva chiedere aiuto? Chi avrebbe mai creduto a questa storia folle? Lui era un uomo serio e rispettabile, come poteva andare in giro a dire che degli omini avevano massacrato quel vecchio pupazzo? Era pura pazzia, nessuno l’avrebbe mai creduto.
  Neppure Lei, caro lettore. Posso vedere il suo sorriso sornione mentre pensa “a me non inganni con i tuoi sotterfugi da scribacchino. Niente da fare”. Tuttavia, si guardi attorno, certamente loro sono arrivati anche da lei. Non pensi alle tarme quando troverà un buco sul suo cappotto nero e non creda che quei rumori nella soffitta sono causati dai topi. Niente affatto. In sostanza loro sono noi, tanto crudeli quanto noi, sebbene piccoli, anzi minuscoli. Leggono dentro le nostre anime, e quello non è una gran bella cosa, si cibano di noi. Bisogna avere paura, non crede? Ma è meglio raccontare la storia dall’inizio, così Lei avrà i mezzi per giudicare.

  Il giorno nove novembre il professore Simino Gregorius decise che alle sei precise sarebbe andato a passeggiare, ma prima ancora sarebbe salito alla mansarda a mettere fine a quell’impossibile confusione che l’arrivo del suo unico figlio dall’estero aveva provocato. Non era semplice per il professore Gregorius accettare un altro spazzolino da denti nella sua casa. Da decenni lui era la sua unica, gradita, compagnia, a parte Ghedino, il suo fidato collaboratore, e la sola idea di condividere l’aria della sua casa con un’altra persona, se pur sangue del suo sangue, non destava in lui nessun entusiasmo. Inoltre il giovane non portava neppure il suo cognome; l’appartenenza alla stirpe dei Gregorius era qualcosa di serio, bisognava meritarla.

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