Quando entrò e vide il pupazzo verde capì che era troppo tardi. Quell’insulso oggetto con gli occhi a mandorla era sempre lì, appoggiato sulla mensolina fra i profumi e le creme. Avrebbe potuto afferrarlo e farlo a pezzi, oppure farlo volare fuori dalla finestra, ma qualcosa, una sorta di imperativo categorico interno, la spingeva a non fare niente di tutto ciò. Per un attimo pensò di tornarsene a letto per riprovare ad addormentarsi. Inutile: ormai quella situazione si era ripetuta troppe volte durante la notte e sapeva che non sarebbe più potuta tornare indietro: c’era nuovamente dentro fino al collo.
Tutta colpa di quel bastardo di Iacopo, era lui la causa di tutto ciò.
Uscì dal bagno e si fermò per un istante ad osservarsi nello specchio ovale del corridoio. I segni della serata prima le si erano stampati tutti sul volto e poi avvertiva un malessere fastidioso proprio all’altezza dell’utero: non era un dolore irresistibile, ma continuo, come se la punta di un lungo ago le si fosse piantata dentro, dalla fica fino agli organi interni.
Il bastardo l’aveva abbandonata, il professorucolo depresso del cazzo si era permesso di fotterle un anno di vita. Provò a dirigersi verso la stanza da letto, ma era come se una forza invisibile glielo impedisse e la spingesse verso il salotto. Non voleva tornarci in quella maledetta stanza, le faceva schifo solo l’idea. Si sentiva i capelli sporchi, stopposi e ora le sembrava che un liquido freddo e viscoso le stesse colando lungo le cosce. Doveva essere l’utero o le ovaie che le stavano marcendo. Si affacciò appena in salotto e con grande delusione constatò che la pozza di sangue era sempre lì, stagnante, forse ancora non del tutto secca. Più in là doveva esserci ancora il cadavere di quel deficiente con il quale, probabilmente, lei doveva aver avuto la malaugurata idea di passare la notte: il taglio, se ricordava bene, era situato proprio in prossimità del cuore, nella parte sinistra del petto. Si sentiva a pezzi, distrutta da quella notte eterna, trascorsa davanti a quell’assurdo ammasso di carne steso per terra nel sangue.
Che cosa era successo? Lo aveva ammazzato lui, per vendetta, per gelosia? Un fiume di lacrime calde le inondò il volto. “Cosa hai fatto Iacopo? Cosa hai fatto stupido bastardo idiota? Come faremo ora? Ti metteranno in galera per tutta la vita. Ti terranno lì dentro rinchiuso. Lontano da me. Ti faranno del male. Ogni giorno ti faranno del male”. Recuperò lucidità: lo stronzo non meritava certo la sua compassione. Che crepasse anche lui, che sprofondasse all’inferno la sua casa di merda, che bruciassero i suoi fottuti compiti da correggere e che morissero tutti i suoi amici del cazzo.
Chissà dove era finito quel gattino grigio che aveva ronfato tutta la notte sul divano di fronte a lei? Quante ore era rimasta accoccolata in quell’angolo della stanza ad osservare il morto? Ogni tanto il micio schiudeva gli occhi per controllare la situazione, un po’ infastidito dai suoi pianti, ai quali d’altronde sembrava aver velocemente fatto l’abitudine. Le pareva di ricordare che a un certo punto si fosse alzato stirandosi su tutte e quattro le zampe e fosse sceso con un balzo elegante dal divano, atterrando proprio sulla pozza di sangue. Aveva appena assaggiato il liquido e poi si era allontanato con un certo atteggiamento sdegnoso, imbrattando il pavimento di piccole impronte rosse. Ma era un ricordo lontano, come di un fatto avvenuto tanti anni prima.
Nonostante la disgustasse l’idea di dover rivedere quel fottutissimo pupazzo verde, era riuscita a trascinarsi nel bagno e mentre pisciava e continuava a pensare al gattino, sentì un colpo, un tonfo sordo provenire da una delle stanze adiacenti. Si alzò dal cesso, ma sentiva le gambe pesanti come statue di marmo. Uscì a fatica dal bagno che ora le sembrava immenso e si ritrovò nella luce giallognola di una cucina. La stanza erano invasa da un forte odore di cibo, di fritto e si ricordò che Iacopo odiava entrare nei locali in cui c’era puzzo di fritto: era capace di rovinare la serata a chiunque pur di non farlo. Le pareti della stanza erano quasi tutte scrostate e appiccicate ad esse, sotto l’intonaco, si intravedevano colonie di vermi rossicci che si aggrovigliavano fra di sé. Il cadavere del deficiente era compostamente seduto a tavola, con i gomiti appoggiati su una tovaglia ricamata, il tovagliolo al collo e le posate in mano, di fronte a un grande vassoio contenente della carne arrostita.
Non aveva poi una così brutta cera, soltanto quella ferita sul petto, che ora si era allargata a dismisura, trasmetteva una qualche trasandatezza, un certo senso di sporco. Sonia immaginò che a questo punto dovesse anche emanare un cattivo odore.
Udì un grido lacerante uscirle dallo stomaco, quando, avvicinatasi di più alla tavola, vide che nel vassoio era stato servito, con intorno un corredo di patate arrostite, il gattino che aveva passato la notte con lei.
“Brutto figlio di puttana - cercava di urlare senza riuscirci e sentiva che le parole rimbombavano nella cavità vuota del suo utero - Bastardissimo figlio di puttana. Come ti sei permesso? Come hai potuto fare una cosa del genere?”
Come un insetto impazzito cominciò a volteggiare intorno alla stanza in cerca di un qualcosa che nemmeno lei sapeva. Gliela avrebbe fatta pagare a quel maledetto idiota. Eccome se gliela avrebbe fatta pagare. Non appena vide la fila di coltelli lucenti ordinatamente infilati in un grosso ceppo, ritrovò la calma. Scelse con cura la lama più affilata, si voltò lentamente verso quello stupido corpo senza vita e con un colpo fermo e deciso gli staccò di netto la testa dal collo. Questa rotolò per qualche metro in direzione della finestra per poi fermarsi con la parte destra del volto appoggiata sul pavimento.
Nemmeno una goccia di sangue. Doveva averlo perso completamente tutto il figlio di puttana.
Sonia si avvicinò alla testa abbandonata sul pavimento e la colpì con un violento calcione, mandandola a spiaccicarsi contro il vetro della finestra che andò in frantumi nel più totale silenzio.
Il dolore all’utero si era fatto ora più violento e quel sogno la stava proprio stremando. Era tutta la notte, da quando aveva ingoiato quella manciata di tranquillanti, che non riusciva ad uscirne.
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